Nell'operazione della Dda di Reggio Calabria scattata a settembre 2021 coinvolti anche diversi cosentini. I grossi quantitativi di stupefacente importati e smerciati e poi il sistema di comunicazione con l’utilizzo di sim tedesche. Ecco i dettagli
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Organizzata in ogni sua forma nel traffico di droga e capace di relazionarsi con più gruppi operanti in Sicilia, in Piemonte e in provincia di Cosenza. In sintesi le parole utilizzate dal gup di Reggio Calabria Giovanni Sergi per motivare le condanne emesse nel processo di primo grado dell’inchiesta “Crypto”, l’indagine antimafia della Guardia di Finanza coordinata dalla Dda di Reggio Calabria. Una vasta operazione scattata nel settembre del 2021 in tutta la Calabria, vista la presunta partecipazione di alcuni personaggi cosentini, come Francesco Suriano e Roberto Porcaro, il primo ritenuto capo della cellula cosentina dedita al narcotraffico e il secondo “reggente”, all’epoca dei fatti, del clan “Lanzino-Patitucci” di Cosenza. Quattro le figure centrali del processo: Bruno Pronestì, Giuseppe Cacciola, Nicola e Domenico Certo.
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Processo “Crypto”, le motivazioni di primo grado
«Il materiale probatorio complessivamente considerato - scrive il presidente del processo abbreviato svoltosi a Reggio Calabria - consente di aderire al paradigma imputativo contestato al capo A della rubrica e sostenere con certezza l’esistenza di un costituto associativo dedito al traffico di sostanze stupefacenti che, di varia tipologia, venivano commercializzate da un gruppo di criminali scaltri, dotati di professionalità allarmante, canali di approvvigionamento e di smercio e, in particolare, di una dimestichezza nella cura degli affari illeciti, che si avvantaggiava della presenza di numerosi soggetti, ognuno con ruoli ben precisi e tutti avvinti dalla medesima cointeressenza criminosa».
Secondo il gup reggino «le emergenze probatorie consentono di predicare pienamente la contestazione elevata dal pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria al capo A della rubrica, essendo emersa l'esistenza di una associazione per delinquere, dedita al traffico di sostanze stupefacenti che, assai ben organizzata, era localizzata in Rosarno e godeva dell'appartenenza di una serie di articolazioni sparse nel restante territorio italiano che, approvvigionatesi di quantitativi di stupefacenti anche ingenti reperiti dal gruppo rosamese, poi provvedevano a smerciare la droga nei mercati locali o a loro stabili acquirenti. Secondo alcune difese, il poderoso materiale probatorio è, semmai, riuscito a rassegnare l’esistenza di singoli gruppi criminali che, dediti ai traffici illeciti nel territorio di rispettiva competenza, erano occasionalmente in contatto per il rifornimento o la vendita della droga». Tesi difensiva che nel processo di primo grado non ha trovato sbocchi, non avendo scalfito (neanche) l’aggravante della transnazionalità che ha sostanzialmente aumentato le pene per tutti gli imputati.
Come eludere le indagini
Secondo il gup di Reggio Calabria, «è stata accertata l’esistenza di una organizzazione criminale complessa, dedicata con costanza ai traffici di droga, sia di cocaina che di marijuana e hashish, dotata di mezzi atti allo scopo (telefoni criptati, autovetture appositamente predisposte per i trasporti illeciti, sistemi comunicativi cifrati) e composta da un coacervo di sodali ognuno con compiti ben precisi e ruoli differenziati, anche apicali: dal corriere per il trasporto della droga al procacciatore di nuovi canali di approvvigionamento anche dall'estero, fino a chi era dedicato allo smercio del narcotico o alia sua custodia e, in ultimo, agli organizzatori e finanziatori delle operazioni illecite».
I rapporti dei rosarnesi gli altri gruppi
«Fulcro nevralgico di detta associazione - si legge nel provvedimento - era la cellula rosarnese (i cui esponenti principali erano i fratelli Certo, Bruno Pronestì e Giuseppe Cacciola) che, giovandosi dei lucrosi canali di rifornimento dall’estero (si rinvia a tal proposito alle interlocuzioni con Alcantara e con gli Stelitano), provvedeva ad importare ingenti e continuativi quantitativi di sostanza stupefacente, trasportati via terra fino a Rosarno e distribuiti con abitualità a più gruppi criminali sparsi in altre aree geografiche del Paese (nella zona di Amantea, nel Torinese, nella città di Catania, e nel Siracusano), che se ne approvvigionavano per lo smercio nelle piazze locali».
L’uso di sim card tedesche
«A corroborare ancora il costrutto accusatorio – spiega il giudice del processo abbreviato di “Crypto” - vi è il sistema comunicativo usato dai sodali per la pianificazione delle attività illecite, che si affidava spesso all’utilizzo della forma scritta tramite gli sms o a numerazioni in codice che mascheravano le vere interlocuzioni. Come visto, si trattava di un sistema di messaggistica altamente sofisticato che, caratterizzato dall'utilizzo ad arte dì codici numerici senza neppure spazi tra loro, impegnava la P.G. operante per svariato tempo nella sua decifrazione. Sicché, l’utilizzo trasversale di tale sistema (che, in quanto assai complesso, per ciò solo necessitava di preliminari e collaudate verifiche tra i conversanti) costituisce un ulteriore sintomo dimostrativo dell’esistenza di un legame stabile tra i gruppi di cui si discute, che, nelle interlocuzioni afferenti ai traffici, si avvantaggiavano di un modus professionale ed evidentemente collaudato tra loro. E del resto, anche l’uso da parte della consorteria di una serie di SIM card tedesche che, da Rosarno, comunicavano in maniera "citofonica” con altri cellulari con numerazione tedesca sparsi sul territorio nazionale (Rivoli, Amantea, Paola, Catania) costituisce una valida dimostrazione del costrutto accusatorio, dovendosi con ciò valorizzare quanto già detto in ordine all'unica matrice di provenienza rosarnese delle suddette sim card che, differenti tra loro solo per le cifre finali, spesso venivano attivate simultaneamente».