Pietro Giamborino è «verosimilmente un politico che fa parte della zona grigia», ma durante il processo Rinascita Scott non sono emersi elementi concreti per poterlo condannare, se non a una pena irrisoria – un anno e sei mesi - per un reato secondario come il traffico di influenze. Le motivazioni della sentenza che assolve l’ex consigliere regionale vibonese dall’accusa di associazione mafiosa, fanno registrare, nella parte che lo riguarda, una coda impietosa.

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Al giudizio di colpevolezza, escluso con formula dubitativa – la vecchia «insufficienza di prove» - il collegio sopperisce, infatti, con una condanna morale di quello che, dopo Giancarlo Pittelli, era l’imputato “eccellente” del processo. Non a caso, la Dda avrebbe preferito punirlo con vent’anni di carcere, ritenendolo portatore di una mafiosità per certi versi genetica: mafiosi erano il padre i gli zii, mafiosi sono i cugini, mafioso è anche lui. 

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In tal senso, gli indizi facevano leva soprattutto sulle dichiarazioni dei pentiti Raffaele Moscato e Andrea Mantella, secondo i quali, in passato, Giamborino era stato parte integrante della locale di ‘ndrangheta di Piscopio da cui s’era poi distaccato per non compromettere la sua carriera politica. Nel tempo, però, avrebbe continuato a interagire con il suo vecchio ambiente di riferimento in termini di scambio di voti e di favori.
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