Emanuele Mancuso racconta che Peppone Accorinti, il boss di Zungri, avrebbe ucciso e fatto sparire Roberto Soriano, giovane capo della ‘ndrina di Filandari, dopo averlo «triturato con la fresa di un trattore». Andrea Mantella sostiene che Peppone «ha un cimitero alle spalle per la tanta gente che ha ucciso».

Spiegava il collaboratore di giustizia: «Se uno gli tornava utile lo lasciava vivere, se così non era e capitava che andava a trovarlo, non lo lasciava neanche tornare a casa. Lui le persone le prendeva con una corda, le strangolava e le buttava in un fosso». E proprio sull’omicidio di Roberto Soriano, i cui atroci contorni vengono ricostruiti nella monumentale indagine Rinascita Scott, Mantella seppe - per averlo appreso da chi era presente a quel massacro - che Peppone e i suoi sodali presero la vittima e «la torturarono usando una tenaglia di quelle per tagliare le unghie alle vacche». Malgrado le vacche abbiano gli zoccoli e non le unghie, il concetto è chiaro.

Il capo del “locale del carcere”

Secondo i pentiti, Accorinti era una specie di macellaio. Accuse ancora da provare, precisiamo, perché finora non v’è mai stato - per colui che è considerato come uno capi più pericolosi e crudeli della ‘ndrangheta vibonese - alcun giudicato che riconosca il boss di Zungri come un assassino incallito.

La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e i carabinieri, che lo hanno arrestato nel contesto della colossale indagine Rinascita Scott, hanno raccolto una mole impressionante di elementi indiziari a suo carico: i pentiti, le informative redatte dagli stessi militari dell’Arma e dalla Polizia penitenziaria (prim’attrice del segmento investigativo denominato “Revolution”, altro caposaldo di Rinascita Scott che ha svelato, all’interno del carcere di Vibo, l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta guidato proprio da Peppone), le intercettazioni. Ci sono quelle che - ad esempio - rivelano i suoi traffici di droga e di armi. E ce ne sono altre sintomatiche della sua ferocia. Come quelle captate tra il 4 e il 5 agosto del 2018.

Minacce, tra una bestemmia e l’altra

Al telefono si lascia andare in una lunga serie di imprecazioni, contumelie e, soprattutto, di minacce. Il suo obiettivo è il comandante della Stazione carabinieri di Zungri. Si chiama Davide Sirna, ed è uno di quei carabinieri tutti d’un pezzo, che non ha paura del capomafia e, benché conscio della sua pericolosità, gli sta sempre addosso, grazie anche alla professionalità e alla dedizione dei suoi militari. Quel pomeriggio i carabinieri vedono Accorinti in villa e si avvicinano per identificarlo. Il boss va fuori da gangheri e, subito dopo, sfoga la sua ira: «Lui come viene per un controllo in una campagna, no? Lo faccio pezzi pezzi…». E, questa, è solo una delle tante minacce proferite tra una bestemmia e l’altra (benché «uomo di fede», diceva di sé).

La sfida alla malavita

Sono giorni particolari, quelli, per Accorinti. Il 4 e il 5 agosto, a Zungri, infatti, si celebra la processione dell’Icona di Maria Santissima della Neve. Il capomafia - a cui nel maggio precedente, dopo ben tre anni di irreperibilità volontaria, il Tribunale di Catanzaro aveva revocato la sorveglianza speciale - torna così a mostrarsi in giro. I carabinieri di Zungri, però, sono lì e monitorano tutti i movimenti suoi e dei suoi congiunti, alcuni dei quali con diversi precedenti penali. Li fermano, li identificano e li controllano a tamburo battente nell’area in cui si svolgono i festeggiamenti civili in onore della Santa Patrona. C’è tutto il paese. E tutti vedono che l’Arma sta addosso al boss, tutti vedono che quei carabinieri fanno il loro dovere fino in fondo senza mostrare alcun timore reverenziale. Anzi.  

La processione interrotta

Accorinti è anche intercettato: «Io non lo so se va questo nella processione...», dice. Poi, dopo altre imprecazioni, promette: «Gli tiro quattro-cinque schiaffi… che la gente lo vede». Insomma, la processione dell’effige della Madonna può divenire – solo nelle sue intenzioni - il momento in cui il capomafia ripristina la sua supremazia sul maresciallo, quindi sull’Arma e lo Stato. Ma fa male i conti. Ci sono i carabinieri della Stazione e, a dar loro manforte, quelli della Compagnia di Tropea. C’è Peppone in mezzo alla folla in processione, si avvicina all’effige della Madonna e si sostituisce ad uno dei portatori. I militari presenti vedono tutto e, come da protocollo stipulato tra Prefettura e Diocesi, intervengono risoluti e interrompono la manifestazione religiosa per motivi di ordine e sicurezza pubblica.

Forse non se l’aspettava una cosa del genere, il boss. Un provvedimento che va oltre il semplice controllo di polizia. Così, evidentemente sorpreso, lui che si sentiva padrone del suo paese e che sentiva di contare perfino più della Chiesa («il prete deve solo venire a dire messa», dice) si dilegua.

Funzionava così…

Odia il maresciallo, che in sé rappresenta tutti quei servitori dello Stato che non hanno paura di lui. Ma ama le imprecazioni. Nonostante ciò, e nonostante le crudeltà che gli vengono attribuite dai pentiti (ma, ripetiamo, queste andranno provate nel processo) rivendica la sua fede: «Maria che vuole? Maria vuole l’unione! Maria ci vuole un popolo unito! Noi siamo il popolo di Maria, il popolo di Zungri e Maria vuole le armi vicino tutto». Mette a nudo, la vicenda della processione interrotta, come abbia funzionato, da sempre, il rapporto tra mafia, fede e pietà popolare in un paese che diventa così metafora calabrese: il boss - quello della fresa e delle tenaglie per le vacche, quello che se vai a trovarlo non sai se torni, quello che dietro di sé ha un cimitero (lo dicono i pentiti, tutto da provare, ripetiamo) - era «il capo di tutti i comitati» e, addirittura - è scritto nei rapporti dell’Arma all’autorità giudiziaria - era lui a «impartire le disposizioni su come e quanto dividere i ricavi ottenuti dalle celebrazioni».

Funzionava così a Zungri. Ora non più.