La Comabio riapre una partita giudiziaria che sembrava chiusa. Fu un’inchiesta della Procura di Paola a svelare gli orrori della casa di cura, tra pazienti malnutriti e fondi distratti per beni di lusso
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La maledizione del “Papa Giovanni XXIII” torna a colpire dopo quindici anni. E stavolta rischia di abbattersi sulla Curia cosentina. Ammonta a 120 milioni di euro, infatti, il risarcimento chiesto all’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano dalla “Comabio”, società italo-belga che, al termine di una serie di passaggi finanziari, ha ereditato i crediti della casa di cura di Serra d’Aiello (Cs) sgomberata a marzo del 2009 e dichiarata poi fallita a dicembre dello stesso anno.
Si tratta più o meno della stessa cifra distratta nel corso del tempo dagli allora amministratori della struttura, monsignor Alfredo Luberto in testa, già tema di un processo che negli anni scorsi ha visto ventotto persone rinviate a giudizio con accuse a vario titolo quali associazione per delinquere, appropriazione indebita, truffa, false fatturazioni e abbandono di persone incapaci. Tre lustri più tardi, la partita giudiziaria che sembrava ormai chiusa, si riapre con la richiesta monstre avanzata dal legale della Comabio, Mario Paolini, contro la Curia cosentina che da parte offesa rischia di ritrovarsi così su quello degli imputati davanti a un Tribunale civile.
Dieci anni dopo la chiusura del Papa Giovanni XXIII
La vicenda in questione sale agli “orrori” della cronaca a luglio del 2007, in occasione dell’arresto del monsignore, all’epoca presidente dell’istituto che ospita pazienti affetti da problemi psichiatrici. L’inchiesta aperta dalla Procura di Paola mette in risalto come, a quella data, la clinica versasse in pessime condizioni igieniche (solo un anno prima, si erano registrati diversi casi di scabbia) e che fosse sprovvista di locali adeguati e attrezzature adatte ad accudire i malati più bisognosi d’attenzione.
Già, i malati. Per ognuno di loro, la Regione Calabria sborsava una media di 150 euro al giorno, ma di questa cifra, solo dieci euro o poco più erano impiegati in cure e assistenza. Il resto finiva dappertutto, anche e soprattutto nei beni di lusso acquistati da Luberto: quadri di valore, palestre, motociclette, automobili.
E così, secondo i calcoli degli inquirenti, tra le rette pagate dalle famiglie dei degenti e i rimborsi ottenuti dal Sistema sanitario, si arriva ai fatidici cento e passa milioni di euro che, nel corso degli anni, erano stati distratti dalle casse dell’Ipg XXIII.
Per quei fatti, Luberto è condannato in primo grado a sette anni di carcere, diventati poi cinque in Appello, malgrado la Procura generale avesse proposto un inasprimento della pena (nove anni). Nel frattempo, il fallimento della struttura di Serra d’Aiello fu seguito dal drammatico sgombero del 17 marzo del 2009, quando tra proteste e isterismi, si procedette all’evacuazione forzata dell’edificio per assegnare gli ospiti del Papa Giovanni ad altre strutture sanitarie.
Proprio ai pazienti della clinica era dedicato un capitolo dell’inchiesta che si proponeva di far luce su alcune misteriose sparizioni. All’appello, infatti, mancavano una dozzina di malati, ma a tutt’oggi, non si sa che fine possano aver fatto queste persone. Dal canto loro, i dipendenti dell’Istituto hanno sempre sostenuto la tesi degli allontanamenti volontari, dato che gli ospiti dell’Ipg erano soliti circolare liberamente per le strade di Serra d’Aiello. Accadeva quindici anni fa, ma ora è di nuovo attualità.