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La droga nascosta nelle cannucce, gli incontri per lo spaccio chiamati in codice caffè. Sono alcuni dei particolari emersi dalle pagine dell’ordinanza dell’operazione “Dioniso” che ha portato ieri all’alba all’arresto di 47 indagati.
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Indagini durate quattro anni quelle coordinate dal procuratore Nicola Gratteri, dall’aggiunto Giovanni Bombardieri e dai sostituti Elio Romano e Fabiana Rapino che hanno disarticolato le tre centrali di spaccio gestite dalle giovani leve del clan Torcasio-Gualtieri-Cerra con l’appoggio della famiglia Strangio di San Luca e di basi in Puglia e in Albania.
Il linguaggio per comunicare era stato codificato e le istruzioni in merito diffuse tra gli adepti. Lo racconta un tossicodipendente diventato testimone di giustizia. Telefonicamente bisognava chiedere di avere un incontro per un caffè, mentre le dosi venivano inserite in delle cannucce aperte a metà e alle cui estremità venivano collocate due microsfere di plastica.
Tre le piazze lametine in cui si snodavano le attività: la Trempa, Capizzaglie e il quartiere Ciampa di Cavallo. Lo spaccio avveniva anche ai domiciliari, con minacce “me ne fotto che sono ai domiciliari ... prendo esco di casa e ti vengo a sparare in testa”, diceva, intercettato, Roberto De Fazio. Diverse le donne coinvolte, dalle telefonate intercettate emergono i nervosismi e la paura dei controlli, il fiato sul collo da parte delle forze dell’ordine.
Tiziana Bagnato