Il sequestro, le minacce e l'iniziale reticenza nel racconto della vittima

Dopo un'iniziale titubanza, il gestore del locale dirà tutta la verità agli inquirenti. Per la Dda di Reggio e per il gip è un racconto credibile e riscontrato anche dalle immagini delle telecamere. Reati perpetrati «con le tipiche modalità mafiose»

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di Angela  Panzera
13 febbraio 2019
20:29

«È emerso in modo chiaro ed evidente dalle indagini  che tutti gli indagati hanno agito con minacce e pressioni gravissime, prospettando alla vittima il male maggiore, ovvero la morte per lui, la compagna ed i bambini di quest’ultima e presentato allo stesso la minaccia come non solo verosimile, ma probabile, evocando l’intervento di un gruppo a favore di Francesco Belfiore, definitosi “capo di San Cristoforo”». A scrivere così è il gip distrettuale di Reggio Calabria, Antonino Foti che ha ordinato l’arresto, eseguito stamani dalla Squadra mobile della Questura reggina, nei confronti di sette persone accusate, a vario titolo, di sequestro di persona e tentata estorsione, reati aggravati dal metodo mafioso. A finire in manette, nell’ambito dell’ inchiesta “Take away”, coordinata dal pm antimafia Roberto Di Palma e dal sostituto Angelo Gaglioti, sono Francesco Belfiore classe 1973, Massimiliano Polimeni classe 1993,Carmelo Bruno Scaramuzzino classe 2000, Bruno Surace classe 1958, Domenico Natale Surace classe 1980, Giuseppe Surace  classe 1981e Pietro Surace, classe 1955.

Il gruppo non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a sequestrare il gestore di una pizzeria per estorcergli del denaro. Il fatto risale alla sera del trenta dicembre scorso quando la compagna della vittima, proprietaria dell’esercizio commerciale, richiede l’intervento delle forze dell’ordine perché pochi attimi prima aveva visto il suo compagno essere prelevato di forza, e contro la sua volontà, da alcuni soggetti. «Avrei bisogno di un vostro aiuto urgente- dirà la donna disperata al telefono- perché sono arrivata qua all’attività e c’erano quattro persone che ci aspettavano e si sono caricati il mio compagno e se lo sono portati via. C’erano i bambini in macchina e l’hanno visto che lo hanno caricato di forza…se potete subito correre». Gli agenti delle Volanti si precipiteranno subito ed infatti, il loro intervento risulterà essere decisivo. La vittima infatti, dopo essere stata trascinata in auto, secondo l’accusa da Francesco Belfiore, Massimiliano Polimeni e Bruno Scaramozzino,  verrà condotta a Pellaro, quartiere alla periferia sud di Reggio, in casa di Giuseppe Surace dove erano presenti anche gli altri arrestati oggi. Al gestore della pizzeria era stato chiesto il pagamento di 500 euro come estorsione perché non aveva saldato 50 euro al suo dipendente. L’uomo, aveva pattuito con Giuseppe Surace, arrestato nel blitz, lo stipendio di 800 euro, ma gliene aveva dati solo 750. “Mancavano” solo 50 euro, ma il gruppo ne voleva altri 500. Una estorsione in piena regola compita anche attraverso minacce di morte e il “richiamo” alla ‘ndrangheta.

 


Iniziale reticenza della vittima

Il tentativo estorsivo non andrà a buon fine poiché quando la vittima verrò finalmente riaccompagnata in pizzeria la presenza sul luogo della Polizia farà desistere i presunti estortori dal loro piano. La sera stessa la vittima verrà interrogata dagli inquirenti, ma all’inizio non dirà tutta la verità. La paura per le minacce di morte ricevute e soprattutto la parentela di Fracesco Belfiore, cugino di Edoardo Mangiola, ritenuto vicino alla cosca Libri di Cannavò, in un primo momento è troppo forte per confessare quanto subito. «Non sono stata per nulla costretto a salire sull’auto con Francesco, Massimo e l’altro soggetto, dirà la vittima ai poliziotti. Durante il tragitto mi hanno chiesto della mia attività lavorativa attuale ed ho pensato che volessero chiedermi qualcosa legato alla serata di domani, atteso che sono rappresentante di bevande. Non ho ricevuto minacce né richieste estorsive». Ovviamente gli investigatori non crederanno ad una sola sua parola e intercetteranno tutti subito. «Proprio dalle attività tecniche di intercettazione, è scritto nell’ordinanza, si è avuta conferma che quanto riferito dalla vittima non corrispondeva a verità». Pochi giorni dopo, ossia il pomeriggio del quattro gennaio si registrerà la svolta: l'uomo spontaneamente si recherà in Questura  per «denunciare come effettivanete erano andate le cose». 

 

La denuncia a pochi giorni dal sequestro

«Belfiore, molto alterato continuava a dire che gli dovevo 800 euro. A quel punto insieme a Massimo, afferrandomi dalle braccia, uno da una parte e l’altro dall’altra parte, mi strattonavano e mi spingevano con forza verso le loro auto. Alla guida si mise Belfiore, al sedile passeggero anteriore Massimo e affianco a me sulla destra, l’uomo giovane che si accompagnava ai primi due. Lo sportello posteriore sinistro era bloccato. Mentre mi facevano entrare con forza sull’auto io li supplicavo di premettermi di accompagnare i bambini dentro la pizzeria, ma Massimo continuava a strattonarmi dicendo che dovevamo andare e di lasciare lì i bambini i quali erano rimasti da soli sulla mia auto». È il racconto di un uomo spaventato e provato per quanto subito. Il gruppo infatti, non ha inteso sentire alcuna ragione neanche dinnanzi all’ipotesi che c’erano due bambini in auto da soli. La vittima verrà portata con forza a Pellaro dove ad attenderli c’era il resto della banda. «Durante il tragitto Ciccio Belfiore sempre con ton alterati, ha raccontato la vittima, mi diceva che a San Cristoforo (zona collinare di Reggio ndr) comanda lui aggiungendo che quella stessa sera se io non avessi saldato il debito, mi avrebbe sparato in testa. Nel frangente, mentre cercavo di far valere le mie ragioni anche l’uomo seduto vicino a me con forza mi afferrava la mano, dicendo di abbassarla e tenerla ferma». Ed ecco che si arriva a casa Surace qui l’uomo proverà a continuare a sostenere che doveva saldare solo 50 euro «fino a quando Belfiore si è alzato e con veemenza mi disse che entro quella stessa sera io avrei dovuto dargli 500 euro». Minacce all’andata, ma anche al ritorno. «Durante il tragitto di ritorno Belfiore continuava a minacciarmi di non denunciarmi dopo che l’avevamo accompagnato, altrimenti mi avrebbe ammazzato o lui o qualcuno al posto suo, i suoi figli o i suoi nipoti. Se non ci fosse stata la polizia- ammette la vittima- avrei dovuto prelevare del denaro e insieme aì Belfiore a Massimo, tornare all’abitazione dei Surace, dove eravamo stati precedentemente, e consegnare i soldi a Giuseppe Surace e ai suoi parenti».

 

Il gip: «l'uomo ha detto la verità»

Queste dichiarazioni sono state ritenute integralmente veriterie prima dalla Dda reggina e poi dal gip anche perché riscontrate da una serie di elementi. Non solo le intercettazioni disposte sulle utenze telefoniche di vittima e indagati, ma dalle celle telefoniche che agganciano proprio le zone indicate dalla gestore della pizzeria e anche dalle telecamere sparse lungo le strade, che immortalano l’auto su cui è stato costretto a salire. «Da quelle immagini- sottolinea il gip- c’è la prova che la vittima è stata condotta all’abitazione del Surace».

 

«Escalation di violenza e minacce mafiose»

Non solo per le modalità del sequestro, ma anche per l’esplicito riferimento al potere sul territorio e alle minacce di morte proferite con violenza hanno quindi portato prima l’Antimafia e poi il gip contestare i reati aggravati dall’aver impiegato il metodo mafioso. «L’escalation di violenza e minaccia e la presenza nella prima fase di tre uomini contro uno- chiosa il giudice- insieme al fatto che la compagna della vittima aveva avvisato il compagno del rapporto di parentela del Belfiore con Mangiola, sono tutti elementi che spiegano il motivo per cui la stessa vittima, la notte del 30 dicembre, abbia reso delle dichiarazioni reticenti e false(..) essendo stato diretto bersaglio non solo della minaccia estorsiva, ma del pieno controllo di tutta la sua persona e della sua capacità di movimento da parte degli indagati per condurlo in casa di Surace Giuseppe, al cospetto di tutti gli altri». Per il giudice infatti, non ci sono dubbi che l’episodio sia stato perpetrato con le tipiche modalità appartenenti alla ‘ndrangheta. «Tutti gli indagati- è riportato nelle carte dell’inchiesta-al momento della perentoria presentazione delle richieste estorsive da parte del Belfiore, con modalità chiaramente soverchiate e mafiose, abbiano avuto un atteggiamento di adesione attiva, mostrandosi a ricevere la vittima al proprio domicilio e attendendo che lo stesso fosse ricondotto con il denaro». Tutti, in buona sostanza, erano consapevoli dell’uso del metodo mafioso» utile al raggiungimento del proprio obbiettivo: ossia arrivare a sequestrare una persona per estorcergli altro denaro in quanto “colpevole” di non aver pagato 50 euro.

 

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