Errori nelle indagini, strani coinvolgimenti emotivi con la vittima e carabinieri che minacciano testimoni. Ecco perché la Procura adesso vuole vederci chiaro
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Massoneria e depistaggi. Un binomio fin qui associato a gran parte dei misteri d’Italia che, messi insieme, rappresentano un elenco già nutrito al quale ora si iscrive anche il caso di Lisa Gabriele. Il sospetto della Procura di Cosenza, infatti, è che se l’omicidio della ventiduenne di Rose è rimasto insoluto per più di sedici anni, un ruolo importante, in tal senso, possano averlo avuto anche dinamiche oscure da cappucci e grembiuli.
La loggia coperta di Abate
Il punto di partenza è la presunta appartenenza a una loggia di Maurizio Mirko Abate, l’ex poliziotto arrestato poche ore fa perché accusato di essere l’assassino della ragazza. Si tratterebbe di una loggia non riconosciuta dalla Massoneria ufficiale, la “Sacro Graal” di Bisignano. Diversi gli indizi e le testimonianze che convergono a conferma di una sua affiliazione, e questo è anche il punto d’arrivo di sospetti destinati, almeno per ora, a rimanere tali. L’ombra della massoneria, però, non si estende mai in modo casuale. Basta evocarne la presenza per far sì che la stessa avvolga tutti, nessuno escluso. E fra carabinieri, medici legali e poliziotti, quelli sfiorati dall’ombra oscura sono davvero tanti.
L’inquinamento delle prove
L’ipotesi investigativa, infatti, è che Abate non abbia fatto tutto da solo, ma che abbia goduto di coperture che gli hanno consentito di farla franca per tutto questo tempo. A suggerire questa pista al pm Antonio Tridico sono alcuni errori marchiani compiuti nelle prime fasi delle indagini, subito dopo il ritrovamento del corpo di Lisa. Sotto questa luce oscura sono inquadrate l’inquinamento della scena del crimine, con prove alterate prima di essere repertate, la mancata trasmissione delle stesse al Ris di Messina – che ne riceverà solo una parte – e poi i vestiti della vittima: sequestrati, restituiti alla famiglia, poi sequestrati nuovamente. Insomma un bel pasticcio, magari frutto di dabbenaggine e leggerezze. Magari no.
Le minacce “in divisa”
C’è poi il primo esame esterno sul cadavere, quello in cui la morte della ventiduenne viene inquadrata come «avvelenamento suicidiario». Un abbaglio del medico legale, che però in calce a quel documento scriveva di non ritenere necessario lo svolgimento dell’esame autoptico. E poi ancora, alcuni testimoni che documentano lo strano operato di alcuni carabinieri che, nei giorni successivi, indagavano sul delitto con metodi quantomeno discutibili. Uno di loro, addirittura, avrebbe condotto una sorta di inchiesta privata, con perquisizioni non autorizzate a casa della vittima e dichiarazioni di testimoni raccolte e non verbalizzate con tanto di minacce ai diretti interessati: «Fatti i cazzi tuoi o farai la stessa fine». La stessa fine di Lisa, s’intende.
L’insospettabile fotografo
E c’è poi quello che, probabilmente, è l’episodio più singolare. Forse anche il più allarmante. Alcune foto ritrovate in casa della vittima. Scatti artistici, non pornografici, ma comunque intimi. Bene, anzi male. Perché l’inchiesta di Tridico ha accertato che a scattarle, a Lisa ancora in vita, era stato un altro dei carabinieri che, in seguito, parteciperà alle indagini del caso. Manipolazioni, strani coinvolgimenti emotivi fra la vittima e le persone chiamate a far luce sulla sua morte. I segreti inconfessabili della provincia italiana. Che diventano poi misteri.