Un cold case, quattordici anni di oblio, lo strazio di una famiglia che perse un figlio nel fiore della giovinezza. Aveva 29 anni Francesco Antonio Giurlanda quando sparì da Soriano, il paese nel quale viveva, una delle gole della lupara bianca. Correva il 27 gennaio 2008. Il successivo 22 febbraio, dopo settimane di ricerche rese complicate dal maltempo, il suo corpo carbonizzato fu ritrovato in una zona boschiva di località Cuturelli-Signoretta, a Gerocarne. L’autopsia svelò come il ragazzo fosse stato assassinato con due colpi di pistola: il primo all’addome, l’altro, letale, alla testa.

Le indagini del 2008

Le indagini, condotte dal pm di Vibo Valentia Fabrizio Garofalo e dai carabinieri di Serra San Bruno, si concentrarono su due conoscenti della vittima. Nei loro riguardi fu anche chiesto l’arresto, ma il giudice per le indagini preliminari non ritenne sufficienti gli indizi a loro carico. Il successivo ricorso al Tribunale Riesame da parte del pubblico ministero fu dichiarato inammissibile. Fu la pietra tombale su un’indagine per la quale i due indagati avrebbero agito – tanto nell’esecuzione dell’omicidio quanto nella distruzione del cadavere – «in concorso con altre persone non ancora identificate».

Un pranzo fatale?

Secondo gli inquirenti dell’epoca, gli accadimenti che portarono all’omicidio di Francesco Antonio ebbero inizio alle ore 13 di quel 27 gennaio, quando la vittima si recò a pranzo, con degli amici, in un garage di località Colaci, a Gerocarne. Undici persone attorno ad lungo tavolo imbandito da prodotti tipici e vino locale. Un convivio tranquillo fino a che – secondo la ricostruzione degli inquirenti – uno dei due indagati pronunciò un brindisi a cui Giurlanda non rispose. Tra loro, sostennero gli investigatori, c’erano «vecchi rancori – così è scritto nelle carte della Procura – verosimilmente ricollegabili ad un furto di gasolio».

L’uomo del brindisi, quello che subì il furto, sospettava proprio di Giurlanda. Dopo il brindisi, la situazione degenerò con minacce reciproche e Francesco Antonio, nella concitazione, colpì il secondo degli indagati, rovesciando vino e bicchieri. La tensione sembrò allentarsi intorno alle 16.30, quando uno zio convinse Antonio a rientrare a Soriano a bordo della sua Fiat Punto. Il ragazzo era scosso, impaurito, pianse e si persuase di rientrare a Gerocarne per scusarsi. Mostrò anche cento euro, quasi a voler ristorare i danni che la sua reazione aveva provocato. Diversi furono i testimoni del chiarimento, comprese alcune donne. E proprio in questo momento l’indagato numero uno gli esternò – sostennero sempre gli inquirenti – il suo rancore per il furto di gasolio subito dal suo oleificio.

Le ore cruciali

Francesco Antonio, a questo punto, rientrò a Soriano, dove raccontò alla madre quanto accaduto nel corso del pranzo, esternando la sua rabbia soprattutto verso l’uomo che lo accusava del furto, e si sarebbe detto pronto perfino ad ucciderlo, potendo contare sull’aiuto di altre due persone che avrebbe dovuto incontrare nella zona industriale di Soriano, dove, intorno alle 20, avrebbe avuto un appuntamento. Così, almeno, lasciò intendere nel corso di una telefonata che gli inquirenti ritengono abbia inscenato davanti ad una persona presente al pranzo e che si ritenne abbia avvisato il presunto obiettivo del pericolo che correva. Quello di Giurlanda, ammesso che ciò sia realmente accaduto, sarebbe stato un bluff, perché l’analisi dei tabulati telefonici, quel pomeriggio, non rilevò alcuna chiamata sull’utenza in uso alla vittima.

La finta telefonata e la pistola

Probabilmente – fu la tesi degli inquirenti – quella finta telefonata destò allarme nella cerchia del rivale e gli costò cara. Diverse persone, peraltro, sapevano che Giurlanda avesse recentemente acquistato una pistola. Un altro bluff questo? Il ragazzo alle 18 uscì di casa e non fece più rientro. L’ultimo testimone a vederlo vivo fu un amico, che lo incrociò alle 18.30 davanti al Municipio del paese. Fu allora che si diffuse la voce secondo Giurlanda sarebbe stato in strada, armato di pistola e con due presunti sodali, per sparare al primo degli indagati.

Anche il secondo indagato sarebbe stato avvisato di ciò e avrebbe provato, invano, a contattare Francesco Antonio con lo scopo di tranquillizzarlo. Altri parenti si sarebbero messi anche a cercarlo, senza però riuscire a rintracciarlo neppure sul cellulare. Secondo gli inquirenti, sarebbe stato Giurlanda a farsi vivo, tra le 19.00 e le 19.30, presso l’abitazione di contrada Colaci, dove sarebbe stato ucciso. Il black out investigativo inizia proprio a questo punto perché, tanto per il gip, quanto per il Riesame, se la ricostruzione degli accadimenti tra le 13.00 e le 19.00 è lineare e corroborata dalle testimonianze, altrettanto non è nelle ore successive, quando, appunto, Francesco Antonio Giurlanda sparì.

Indizi insufficienti

La scomparsa fu denunciata il giorno seguente dal papà della vittima ai carabinieri. Il suo corpo fu ritrovato meno di un mese dopo, il 22 febbraio. Fu vittima di un omicidio non premeditato, secondo la Procura. Ucciso con due colpi di pistola, poi caricato nel portabagagli della sua Fiat Punto, condotta in una zona boschiva e qui data alle fiamme. Il fuoco distrusse tutto o quasi, comprese eventuali tracce, organiche e non, utili a risalire agli autori del delitto. Le intemperie di quel gelido inverno fecero il resto. Rimase un presunto movente, una ricostruzione efficace dell’antefatto, ma – come hanno rilevato gip e giudici del Tribunale del Riesame – l’indagine rimase priva di indizi sufficienti a carico dei due presunti esecutori del delitto e lì finì. Non furono di supporto le intercettazioni, mentre la battaglia assicurata da Vincenzo Giurlanda, padre della vittima, affinché si facesse luce sulla morte del figlio, non fu sufficiente in un contesto di reticenze e omertà.

Il Cinghiale

D’altra parte, gli investigatori, sin dall’inizio, ritennero che il delitto e la distruzione del cadavere di Francesco Antonio Giurlanda non fosse opera di sole due persone. Unico elemento aggiuntivo, le dichiarazioni dal collaboratore di giustizia Enzo Taverniti detto Il Cinghiale, nel primo interrogatorio reso il 9 gennaio 2010 negli uffici della Squadra mobile di Pisa. In sostanza riferì la stessa ricostruzione dei fatti operata dai carabinieri di Serra e dalla Procura di Vibo negli atti dell’indagine, che solo successivamente divennero pubblici, nei termini appresi da un parente di uno dei due indagati.

Gli sconvolgimenti mafiosi

Per le Preserre vibonesi, da lì a breve, si sarebbe aperta una fase complicatissima sul piano criminale. Ulteriori nuovi collaboratori di giustizia diedero la stura alla maxioperazione Luce nei boschi, conclusa in due atti. Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e Squadra mobile di Vibo Valentia, poi, condussero la maxioperazione Ghost. Il capo della società ‘ndranghetista di Ariola, Antonio Altamura, all’ergastolo, come il sanguinario padrino Bruno Emanuele, che a suo tempo conquistò il potere eliminando gli storici vertici del clan Loielo. Nel 2012, infine, il drammatico regolamento di conti che non ha risparmiato diversi giovani. Giovani, appunto, come Francesco Antonio Giurlanda. Vittima di un omicidio probabilmente maturato non per ragioni di mafia, in una terra nella quale basta un gesto o una parola sbagliati per morire in modo atroce.