La Procura di Vibo Valentia riapre le indagini sull’omicidio di Francesco Prestia Lamberti, il sedicenne ucciso in località Vindacitu, a Mileto, il 29 maggio del 2017. Per quel delitto, il Tribunale dei minori di Catanzaro ha già condannato, quale unico autore, Alex Pititto, all’epoca quindicenne, figlio di Salvatore Pititto, narcotrafficante e figura di primissimo piano della criminalità organizzata vibonese. Sull’atroce fatto di sangue - che sconvolse la comunità dell’ex capitale normanna, che colpì e commosse l’Italia intera - però non si sono mai diradate molte zone d’ombra.

«Non ha agito da solo», ripetono, da più di tre anni, i genitori di Francesco, Marzia e Guido, parlando dell’assassino. «Da solo - dice la madre - non poteva fare tutto ciò. Non tornano i tempi. Non torna neppure il luogo nel quale è stato trovato il corpo di Francesco. È successo tutto in venti minuti, da quando mio figlio è uscito di casa. In venti minuti non potevano arrivare in aperta campagna, picchiarlo, ucciderlo, tornare, nascondere la pistola. Sono tanti, tanti, i punti che non tornano».

Un giallo ancora aperto

I genitori della vittima parlano sempre al plurale ed ai loro dubbi ha dato vigore un’inchiesta delle Iene, curata dall’inviato Gaetano Pecoraro, andata in onda il 21 ottobre 2018. E l’attività d’indagine svolta dal giornalista siciliano avrebbe offerto elementi preziosi, forse determinanti, per convincere il procuratore Camillo Falvo a riaprire il caso. Il magistrato, sin dal suo insediamento a Vibo Valentia, il 18 dicembre 2019, ha inteso operare una ricognizione su tutta una serie di vicende omicidiarie, ascoltando e provando a dare riscontro alla domanda di giustizia che proviene dai familiari delle vittime. Così, l’8 settembre, affiancando il sostituto procuratore titolare del fascicolo, Ciro Luca Lotoro (in foto), ha sentito a lungo i genitori di Francesco Prestia Lamberti, scansionando minuto per minuto ciò che avvenne la sera in cui lo studente miletese fu ucciso.

E allora, quella scritta nella sentenza del Tribunale dei minori - anche sulla scorta della lacunosa confessione di Alex Pititto, che si assume la responsabilità del delitto ma che, ad esempio, non fornisce elementi utili per consentire il ritrovamento della pistola - è una verità parziale? Ve n’è un’altra, complementare o addirittura alternativa, su ciò che avvenne quella sera di maggio nelle campagne di Mileto? È questo che il procuratore Falvo e il pm Lotoro, unitamente ai carabinieri del Comando provinciale, intendono chiarire.

Morire per niente

Il movente ed il contesto nel quale è maturato l’omicidio sono chiari. Alex Pititto è  una sorta di boss in erba, nato e cresciuto in uno dei clan più influenti del Vibonese. Spaccia e, secondo alcune testimonianze, a volte gira armato. È invidioso di Francesco, un ragazzo perbene e di successo, a scuola e nello sport, capitano della squadra di calcio giovanile del paese, popolare, a cui però non perdona l’affettuosa simpatia che lo lega ad una ragazza che l’assassino ritiene gli appartenga e verso la quale nutre una gelosia ossessiva e morbosa. Per questo lo uccide. Ciò che non torna è la dinamica degli eventi.

Cosa accadde quella sera?

Alex (in foto), nei giorni precedenti l’uccisione di Francesco, con quella stessa arma che avrebbe sottratto al nonno, minaccia altri ragazzi. Nessuno però denuncia e così il ragazzino che sogna di vivere da camorrista, come nella fiction Gomorra, non viene fermato. La sera del 29 maggio Francesco è a casa, chatta col cellulare. Intorno alle 20 esce. Dice alla madre che va a mangiare fuori con gli amici. Ma quando più tardi i familiari provano a contattarlo, il tuo cellullare risulta irraggiungibile: il ragazzo più bello e popolare di Mileto - come lo descrivono i suoi amici più cari - è stato già ucciso.

Alex Pititto si presenta poco dopo ai carabinieri, dice di avergli sparato due colpi: uno alla testa e uno al torace. Dice che il corpo si trova nelle campagne di Vindacitu e i militari dell’Arma lo recuperano, malgrado le imprecise indicazioni che il giovanissimo assassino fornisce loro.

Quanto alla dinamica, la sua ricostruzione è fantasiosa e tutt’altro che convincente: ai carabinieri spiega che in campagna ci sono andati solo lui e Francesco a piedi, parla dell’arma nascosta tra gli arbusti, di una colluttazione con Francesco che gliel’avrebbe puntata senza motivo, poi gliel’avrebbe strappa e lo avrebbe ammazzato. Al pm dei minori, più avanti, ne racconta un’altra, smentendo che ci sia stato alcuno scontro con la vittima. Quando viene incalzato sul movente, si chiude nel silenzio. Lo stesso che manterrà anche davanti al giudice.

Una salma che parla

Il corpo di Francesco, dal canto suo, mostra segni contraddittori. Ha una mano in tasca, indice che è stato ucciso a sangue freddo, quando era inoffensivo e forse non si aspettava di essere sparato. Ma ha anche escoriazioni e lividi sul collo, su un braccio e su un polso. Nell’inchiesta delle Iene viene interpellato un consulente medico legale, secondo il quale, invece, la tesi della colluttazione è invece plausibile ma non nei termini rappresentati dall’assassino. Francesco quella sera - secondo l’esperto intervistato dal programma Mediaset - viene preso con violenza per il polso ed il braccio, poi un tentativo di strangolamento alle sue spalle. Francesco quindi si libera, magari prova a parlare, mette la mano in tasca. Il consulente medico legale interpellato da Gaetano Pecoraro ipotizza anche una seconda versione dei fatti: qualcuno trattiene Francesco con la forza, prova a strangolarlo, Francesco si libera e viene sparato da un secondo soggetto presente sulla scena del crimine.

L’autista di Alex

Quella sera, in località Vindacitu, certamente c’è almeno una seconda persona. Figura che necessariamente assume un ruolo centrale nell’indagine riaperta dalla Procura di Vibo. Si chiama Domenico Evolo, maggiorenne. Da quando ha la patente fa da autista ad Alex Pititto ed è consapevole dei giri di droga del suo amico. Anzi, per i passaggi che gli offre di tanto in tanto viene ripagato con qualche spinello. Evolo, la mattina dopo l’omicidio, parla prima col cugino e poi col padre che lo conduce subito dai carabinieri. E da quello che racconta viene fuori come la confessione di Alex Pititto sia mendace su diversi punti. Intanto Alex e Francesco non sono arrivati a piedi in località Vindacitu, ma li ha accompagnati lui in macchina. Così come nei giorni precedenti era stato lui, Domenico, ad accompagnare Alex, sempre nello stesso posto, dove si era reso protagonista di altre pesanti minacce almeno verso un altro ragazzo.

La versione di Domenico

Domenico racconta che, assieme ad Alex, la sera del 29 maggio 2017,  a bordo della sua auto, va a prendere Francesco vicino alla scuola elementare di Mileto. Si dirigono in campagna. Francesco e Alex scendono. Alex dice a Domenico di fare inversione che sarebbero tornati subito. I due adolescenti, nel buio, si incamminano così lungo una stradina. Dopo dieci minuti, correndo, pistola in pugno, Alex torna. Sale in macchina. Domenico domanda che fine abbia fatto Francesco e Alex risponde di averlo ucciso, quindi dice all’amico di ripartire verso il centro di Mileto e lo minaccia puntandogli la pistola al fianco destro: se avesse parlato, avrebbe ucciso anche lui.

Lasciato l’assassino e spaventato, torna a casa dove, dopo una notte insonne, racconta ai familiari i fatti della sera precedente. Domenico afferma di non essere mai stato consapevole che Alex aveva con sé la pistola.

«Io li ho accompagnati là. Sono scesi in due e ne è arrivato uno solo», spiega Domenico - ignorando di essere registrato - all’inviato delle Iene giunto a Mileto per indagare sul caso. «Ed era solo?», incalza il giornalista: «Non lo so adesso se era da solo là. Là sotto non so se c’era qualcun altro con loro».

La cronaca, le minacce al prete

Nei giorni successivi il caso di cronaca diventa nazionale  e internazionale: anche testate estere raccontano la storia dell’adolescente ucciso dal coetaneo figlio di un boss per gelosia. Mileto è sconvolta. I funerali tagliano il cuore, l’eco del caso è deflagrante. Anche la Chiesa si espone senza tentennamenti. Don Mimmo Dicarlo, il prete, invita chi sa qualcosa a parlare e riceve un messaggio preoccupante sul suo telefonino.

È di Gianluca Pititto, fratello di Alex, già coinvolto - come il resto della sua famiglia - nella maxioperazione antidroga Stammer, coordinata proprio da Camillo Falvo quando era alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Il fratello di Alex a scrive a don Mimmo di limitarsi a fare il prete, senza aggiungere altro: l’invito è chiaro.

Questa è la sintesi degli elementi dopo tre anni e mezzo da quell’agghiacciante fatto di sangue. Un caso che non è chiuso. Un caso sul quale la Procura di Vibo Valentia (in foto il procuratore Falvo) vuol andare fino in fondo, nell’auspicio di diradare, definitivamente, quelle zone d’ombra che sin dall’inizio si sono addensate sulla sorte di Francesco Prestia Lamberti.