Chiuse le indagini della Procura di Palmi per l’omicidio del barone Livio Musco. Il procuratore Ottavio Sferlazza e il pm Rocco Cosentino hanno notificato l’avviso di conclusioni dell’inchiesta a Teodoro Mazzaferro e Berdj Domenico Musco in quanto accusati, in concorso, di aver esploso “all’indirizzo di Livio Musco diversi colpi di arma da fuoco” che ne cagionavano la morte. L’omicidio è avvenuto a Gioia Tauro il 23 marzo del 2013. I due sono anche accusati di aver detenuto un’arma da fuoco una pistola calibro 7.65, matricola e modello non accertati, ossia la pistola usata per uccidere il barone.

 

L’avviso di conclusione delle indagini arriva a quasi due anni dall’arresto del presunto esecutore materiale, Teodoro Mazzaferro difeso dai legali Domenico Putrino e Guido Contestabile. Mazzaferro fu scarcerato 20 giorni dopo l’arresto, avvenuto nell’ottobre del 2016, e gli inquirenti all’epoca non presentarono ricorso in Cassazione. Lapidarie furono infatti le motivazioni del Riesame che sembrava avessero smontato pezzo per pezzo l’inchiesta della Procura di Palmi. Già il gip aveva negato l’arresto dell’altro indagato, Domenico Berdji Musco. Da questo atto giudiziario quindi, gli inquirenti insistono sulla loro tesi: sarebbero stati Mazzaferro e Domenico Berdji Musco ad uccidere l’anziano barone. Tre colpi di pistola calibro 7.65 furono sparati al viso e al collo di Livio Musco che morì poco dopo in ospedale. Per i magistrati questi colpi furono sparati da Mazzaferro e Domenico Berdji Musco.

 

Ad “incastrare” Mazzaferro fu il segnale gps della propria automobile che, in un orario compatibile con quello del delitto, si trovava proprio vicino all’abitazione dei Musco. In sede di Riesame però i giudici, nell’ordinanza che ordinò la scarcerazione di Mazzaferro, scrissero che nonostante l’indagato fosse presente vicino all’abitazione del barone Musco nell’orario in cui è stato commesso il delitto, non era possibile che sia stato lui. Nessuno lo vide entrare in casa e soprattutto troppo breve era stata la sua sosta, ossia 6 minuti e 20 secondi: un tempo incompatibile con l’esecuzione di un omicidio. Per i magistrati di Palmi, Mazzaferro uccise il barone Musco poiché quest’ultimo non avrebbe onorato un debito contratto proprio con quello che poi diverrà il suo assassino. Si tratta di circa 20 mila euro. Sempre il riesame aveva evidenziato che questa somma era una cifra “risibile” per uno come Mazzaferro che disponeva di un ampio patrimonio.

 

Nell’avviso di conclusioni indagini infine, spunta un altro indagato estraneo però al delitto. Si tratta di Ruggiero Musco, fratello della vittima, accusato di aver “illegalmente detenuto e portato in luogo pubblico la pistola Beretta, calibro 7.65”. Con ogni probabilità questa era l’arma, appartenente alla famiglia Musco, che “sparì” misteriosamente dopo il delitto. L’arma in questione era di proprietà di Ettore Musco, padre di Livio e capo del Sifar (il servizio segreto militare) dal 1952 al ‘55. Una pistola 7.65, acquistata nel 1977 da Giuseppe Musco (altro fratello della vittima ndr), che era stata ceduta regolarmente dal padre Ettore e subito dopo la morte di quest’ultimo, almeno secondo quanto dichiarato dai familiari, era stata presa in consegna da un altro fratello del barone, ossia Ruggiero Musco. Quest’ultimo però disse di non aver mai preso la pistola dalla casa del padre. L’arma, allo stato, non è stata ancora trovata. Adesso gli indagati hanno 20 giorni per chiedere di essere interrogati e depositare memorie difensive.