«Questo è un primo risultato investigativo». Così ha esordito il procuratore facente funzioni di Vibo, Filomena Aliberti nel corso della conferenza stampa convocata per illustrare i dettagli dell’operazione che ha portato all’arresto di Salvatore Ascone, 53enne di Limbadi, per l’omicidio di Maria Chindamo, l’imprenditrice di Laureana di Borrello scomparsa nel maggio del 2016.  «Nelle indagini entrano anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso che consentono di chiarire alcuni aspetti della vicenda».

 

«Gli elementi raccolti non consentono di chiarire che Ascone abbia preso parte ad aggressione e delitto» - ha affermato poi il pm Concettina Iannazzo - Tuttavia risulta la partecipazione e la collaborazione dello stesso con gli esecutori materiali. È ancora una goccia nel mare ma ci consente di procedere con un lavoro che contiamo di mandare avanti con celerità. Ora l’obiettivo è ritrovare i resti di Maria Chindamo».

 

Con Ascone risulta indagato a piede libero un suo operaio, Gheorge Laurentiu Nicolae, 30 anni, romeno, domiciliato a Limbadi. Nei loro confronti la Procura di Vibo contesta il reato di concorso in omicidio con soggetti allo stato ignoti. Secondo gli inquirenti avrebbero contribuito a cagionare la morte di Maria Chindamo manomettendo il sistema di videosorveglianza installato nella proprietà di Ascone in località Montalto a Limbadi allo scopo di impedire la registrazione delle immagini riprese dalla telecamera orientata sull’ingresso della proprietà dell’imprenditrice di Laureana di Borrello, dove la donna fu prelevata e portata via la mattina del 6 maggio 2016. I carabinieri sono arrivati a questa conclusione dall’analisi del “libro di bordo” ovvero i file di log del sistema di videosorveglianza. La “scatola nera”, una volta scoperchiata, ha messo in luce tutte le manovre effettuate dagli odierni indagati, dati inoppugnabili poiché documentano che le manomissioni sono state effettuate esattamente la sera prima della scomparsa di Maria Chindamo e quindi inequivocabilmente propedeutiche alla commissione del delitto pianificato per la mattinata successiva ad opera degli esecutori materiali, consapevoli di operare in maniera indisturbata e con la sicurezza di non essere ripresi, quindi individuati. Per la Procura di Vibo Maria Chindamo è stata barbaramente assassinata. Un omicidio volontario perpetrato da ignoti poco dopo le 7 del mattino del 6 maggio 2016 davanti alla propria azienda dove uno dei suoi dipendenti trovò l’auto con il motore acceso, l’impianto stereo a tutto volume e tracce di sangue sulla carrozzeria della sua Dacia e al suo interno tutti gli effetti personali compresa la borsa contenente oltre mille euro in contanti.

 

Il tenente colonnello Luca Romano ha sottolineato la difficoltà nel condurre le indagini relativamente a «un caso sul quale mai è calata l’attenzione dell’Arma. Fatto che ha colpito l'intero Paese. Mai sono state interrotte le ricerche. Procura e Arma oggi danno una prima importante risposta, che getta luce nuova su vicenda». Complesse indagini, sviluppate ricostruendo un puzzle fatto di dati tecnici, dichiarazioni degli indagati e perlustrazione d’area, hanno permesso di giungere dunque ad una prima importante svolta con l’individuazione di quelli che per l’accusa sarebbero “due dei correi” dell’efferato delitto.

 

Secondo la ricostruzione fornita dai carabinieri è emerso chiaramente che la Chindamo è stata dapprima aggredita non appena scesa dall’auto e poi caricata con la forza da uno o più soggetti su un altro mezzo con cui gli autori si sarebbero allontanati. Le tracce ematiche dimostrano la colluttazione avvenuta in più fasi. Una scena che avrebbe potuta essere immortalata dal vicino se questi non avesse manomesso l’impianto di videosorveglianza.

 

Per questo motivo Salvatore Ascone e Gheorghe Laurentiu Nicolae si trovano indagati perché – secondo l’accusa – avrebbero manipolato il sistema di videosorveglianza “tramite un’interruzione di alimentazione dell’hard disk interno, cagionata da un intervento manuale diretto ad inibire in tal modo la funzione di registrazione”.

 

Agli investigatori che nel maggio del 2017 lo sentirono a sommarie informazioni Ascone dichiarò testualmente: “Le chiavi della casa dove sta custodito l’Hard disk ce lo ho solo io oppure mia moglie. Sicuramente nessuno può aver avuto accesso all’abitazione perché c’è anche un impianto di allarme ed arriva la segnalazione sul telefonino mio, di mia moglie e dell’operaio che si chiama Nicolai”.

 

Ad aggravare la posizione di Ascone sono le dichiarazioni fornite dal collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso che tendono a rafforzare l’ipotesi accusatoria di una manomissione temporanea volontaria del sistema di videosorveglianza. Il figlio di Panteleone Mancuso, alias l’ingegnere, aveva una frequentazione pressoché giornaliera con gli Ascone e ben conosceva le abitudini della famiglia. Il collaboratore di giustizia ha riferito un particolare fondamentale alle indagini: la “mania” o la “paranoia” di Salvatore Ascone per i sistemi di videosorveglianza. Ho sempre notato che era solito monitorare con sistemi di videosorveglianza tutti i luoghi di sua proprietà, sia l’abitazione, sia la casa in campagna, nonché i capannoni e i luoghi in cui aveva beni e animali… omissis … Era particolarmente attento al funzionamento di questo sistema al punto che quando c’erano dei guasti subito chiamava il tecnico affinché se ne occupasse”.  Proprio il mancato funzionamento delle telecamere il giorno dell’omicidio della Chindamo fu oggetto di un discorso tra Emanuele Mancuso e gli Ascone dopo la scomparsa della donna. “Salvatore Ascone mi disse – spiega agli inquirenti il collaboratore di giustizia - che le telecamere erano spente proprio quel giorno”. La “rivelazione” fece agitare la moglie che si affrettò a precisare che si trattava di un “malfunzionamento”.

 

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