L'avvocato della famiglia del procuratore di Torino ucciso nel 1983 intervenendo alla Commissione legalità del Comune: «Mi sarei aspettato l'impegno di tutte le istituzioni per accertare i fatti»
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«Abbiamo provato in tutti i modi a convincere l’autorità giudiziaria milanese a sentire i magistrati che nel 1983 lavoravano alla Procura di Torino con Bruno Caccia. Non farlo è uno sfregio alla memoria, ma la memoria non può andare in archivio».
Così l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia del procuratore di Torino ucciso la sera del 26 giugno 1983 in via Sommacampagna, mentre passeggiava con il suo cane. Il fatto di sangue, per quanto emerso, sarebbe maturato in ambienti legati alla 'ndrangheta. «A 37 anni dal delitto - ha spiegato Repici intervenendo alla Commissione legalità del Comune di Torino - non conosciamo ancora i nomi di tutti i killer, le ragioni del delitto e l’identità dei mandanti: sappiamo pochissimo sull’omicidio. Ciò è dipeso da attività giudiziarie lacunose, soprattutto subito dopo il delitto. Questo è accaduto non solo per incapacità e oggettive difficoltà, ma perché quello era l’indirizzo da percorrere da parte di alcuni».
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Il legale ha poi spiegato che «nel 2013, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Torino, solo un magistrato riprese le parole dei figli di Bruno Caccia, ribadendo che bisognava dedicare anima e corpo per risalire alla verità e quel magistrato fu Giancarlo Caselli. La sensibilità mostrata da Caselli - ha osservato Repici - non posso dire fu la sensibilità unanime del distretto giudiziario di Torino, ho riscontrato semmai la scarsa attitudine per raggiungere la verità sul delitto».
E ancora: «L’omicidio Caccia è il più importante e delicato nella storia torinese. Non si possono fare classifiche, ma Bruno Caccia è stato l’unico procuratore della Repubblica ucciso al di fuori della Sicilia e, credo, un delitto così delicato avrebbe necessariamente implicato l’impegno massimo di tutte le istituzioni il cui ruolo è accertare la verità e individuare i responsabili.
Eppure è stato l’unico delitto importante nella storia d’Italia in cui le attività di indagini furono svolte non dalla polizia giudiziaria ma dai servizi segreti, il Sisde, che peraltro delegò, Francesco Miano, un fatto che sconcerta».
Per il delitto Caccia, ad oggi, sono stati condannati in via definitiva gli ‘ndranghetisti Domenico Belfiore e Rocco Schirripa.