Incontro pubblico in riva allo Stretto per riflettere sulle misure a tutela della salute dei detenuti, nell’evento di chiusura del master della Mediterranea in Criminologia e sistema penitenziario. Fra i relatori l’ex sottosegretario Corleone
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«Le vite in carcere non sono vite di serie B. I detenuti non smettono di essere cittadini». Le conclusioni del garante reggino Agostino Siviglia racchiudono perfettamente il senso dell’incontro conclusivo del master in Criminologia e sistema penitenziario tenutosi venerdì alla Libreria Culture di Reggio Calabria. L’evento, incentrato sulla storia di Stefano Cucchi e programmato già da tempo, ha avuto una fortunata coincidenza: giungere proprio nel giorno successivo a quello in cui sono state rese note le dichiarazioni di uno dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, che ha chiamato i colleghi alle proprie responsabilità. Un tema di fortissima attualità, dunque, che però non si è limitato alla sola vicenda Cucchi, ma ha interrogato anche sulle altre morti sospette in carcere, sul sistema di assistenza sanitaria ai detenuti e sulla complessa vicenda riguardante coloro i quali soffrono di patologie di tipo psichiatrico.
Un parterre d’eccezione ha interessato per diverse ore studenti e professionisti che hanno potuto approfondire in maniera significativa tematiche troppo spesso lasciate alle ondate emotive determinate dagli eventi. I saluti del direttore del Digiec, Massimiliano Ferrara, hanno fornito lo spunto per una prima notizia: il master avrà una seconda edizione, seppur con una diversa formulazione, al fine di poter creare anche una offerta esterna ed un valore aggiunto per l’intero ateneo.
L’introduzione del prof Capone
A fare gli onori di casa Arturo Capone, docente di Diritto processuale penale della Mediterranea nonché direttore del master, il quale si è soffermato su alcuni punti critici riguardanti la salute e l’assistenza sanitaria in carcere: dalle scelte di coscienza dei medici, passando per i diritti fondamentali dei detenuti fino all’evoluzione dell’assistenza nei penitenziari, dapprima affidata alla stessa amministrazione per poi essere ceduta al sistema sanitario nazionale. Quanto al tema Cucchi, Capone si è chiesto come sia possibile che i medici che lo hanno avuto in cura non si siano accorti che quei danni e quelle ecchimosi non fossero compatibili con una “caduta dalle scale”. «Come è potuto accadere? È possibile che i medici abbiano subito dei condizionamenti», si è chiesto il docente rivolgendosi ai relatori. E sempre a loro Capone ha rivolto altri importanti interrogativi sia sulla formazione della classe medica, sia sulla colpa e la cosiddetta “medicina difensiva” per giungere poi al capitolo delle visite esterne al carcere e della presenza di strutture adeguate o meno, per approfondire la fase diagnostica.
«Voglia di manicomio dietro l’angolo»
A rispondere per primo ai quesiti posti dal docente è Franco Corleone, già sottosegretario alla giustizia e garante dei detenuti della Toscana. Rispolvera un vecchio pezzo da lui scritto per il Manifesto in cui, in sostanza, veniva già detto ciò che poi si è appurato sia accaduto al povero Cucchi. Un articolo profetico, in cui venivamo fortemente sottolineate responsabilità, omissioni e coperture a tutti i livelli. Corleone prima ricorda gli articoli 13, 27 e 32 della Costituzione, poi passa a sciorinare alcuni dati riferiti alla Toscana, ma emblematici della situazione italiana. Nel 2017, solo nella regione che ospita la città di Firenze, vi sono stati 104 tentativi di suicidio; 854 gli atti di autolesionismo. «In carcere, di notte, scorre il sangue – rimarca Corleone – perché di giorno vi sono corsi, attività, partite. Di pomeriggio termina tutto, mentre è di notte che accadono i fatti peggiori e bisogna averne consapevolezza».
Molto spazio viene dato anche al capitolo dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, alla difficoltà che si incontra oggi nella gestione di detenuti che presentano particolari patologie mentali e per i quali è particolarmente complesso ottenere misure alternative che, invece, è possibile avere nei casi di patologie fisiche. «Stiamo attenti – conclude Corleone – perché oggi la voglia di manicomio sembra essere dietro l’angolo». Un argomento che viene poi ripreso e approfondito, specie nella parte riguardante la riforma, nell’intervento di Luciano Lucania, referente regionale per il dipartimento Salute dell’Asp di Reggio Calabria.
La paura dell’indifferenza
E se il caso Cucchi diventa motivo di discussione per la sua particolare drammaticità, non è certo l’unico avvenuto nelle nostre carceri. Fra i detenuti morti in circostanze ancora da chiarire fino in fondo c’è anche Antonino Saladino, un giovane reggino deceduto la sera del 18 marzo scorso. Ed è a questo episodio che si riallaccia l’intervento del garante dei detenuti di Reggio Calabria, Agostino Siviglia che esordisce citando Liliana Segre e la paura dell’indifferenza, per approdare ben presto ad una declinazione precisa di tale termine. L’analisi non può che partire dal film “Sulla mia pelle”: «L’indifferenza, che si vede ritratta nel film, pur nella consapevolezza che si tratti di un film - anche se in gran parte basato sugli atti ed i verbali autentici della vicenda “Cucchi” - non risparmia quasi nessuno: il giudice dell’udienza di convalida dell’arresto; il pubblico ministero d’udienza; l’avvocato d’ufficio che non si preoccupa neanche di chiedere l’autorizzazione per la visita dei genitori di Stefano; la dottoressa del Pertini che si preoccupa solo di fare annotare il rifiuto alle cure del degente-detenuto; l’agente di polizia penitenziaria che si preoccupa solo che non gli si venga addebitata la paternità di quelle lesioni di cui Cucchi è evidentemente vittima; il direttore dell’istituto penitenziario che rifiuta di prendere in carico il ragazzo; i carabinieri che traducono Cucchi in udienza preoccupandosi esclusivamente di mettere in chiaro che l’arresto non era stato operato da loro; il medico del primo ingresso in carcere che chiede ma poi finisce per non denunciare quanto risulta evidente … insomma un estenuante passaggio burocratico di consegne e di responsabilità, accompagnato dalla condizione triste di sguardi abbassati, che non vedono perché non si soffermano a guardare … ad eccezione del barelliere del 118 che tenta di vedere ma che non riesce … perché gli occhi bassi questa volta sono quelli di Stefano Cucchi … che non si vuole fare vedere, che non si vuole fare aiutare. E’ un film, certo, ma gli atteggiamenti raffigurati sono paradigmatici dell’indifferenza che tante volte nella vita reale accompagnano l’esistenza quotidiana».
La situazione delle carceri reggine
Il pensiero corre subito al penitenziario di Arghillà: «Vedo che l’istituto penitenziario è stato negli ultimi anni affollato di detenuti provenienti da altre regioni (Campania, Puglia, Sicilia, in barba al principio di territorializzazione della pena); che il carcere sovrabbonda di detenuti extracomunitari; di detenuti tossicodipendenti; di detenuti cosiddetti sex-offender; di detenuti autori di reati comuni e di detenuti di alta sicurezza: in definitiva, si tratta di una frammistione di popolazione detentiva assai problematica da gestire, tanto sul versante sanitario, quanto su quello securitario e trattamentale. Mentre nel carcere “G. Panzera” ha destato e desta ancora la mia particolare attenzione la sezione di “Osservazione Psichiatrica”, che dopo anni, a seguito di un mio intervento congiunto con il Garante Nazionale, è stata chiusa da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, per essere ristrutturata ed adeguata ai parametri normativi vigenti in materia e, finalmente, riaperta garantendo le condizioni minime di dignità della persona umana». Tornando ad Arghillà, il presidio sanitario è risultato sempre meno garantito: «Non era ed ancora non è garantita la copertura infermieristica h24; il personale medico-sanitario è ancora insufficiente; la specialistica necessita di implementazione; manca un gabinetto radiologico; manca un presidio di sicurezza da parte del personale di polizia penitenziaria».
Morto in cella senza un perché
Ecco allora che la storia di Antonino Saladino acquista ancor più valore. A testimoniarla è la madre di Antonino, Caterina Amaddeo, che legge una lettera intrisa di amarezza. «Nino era un ragazzo come tanti, nel quartiere lo conoscevano tutti come una persona buona e generosa. Lavorava come imbianchino e si dedicava a me ed alla sorella, visto che il padre ci ha lasciati quando ancora entrambi erano molto piccoli. Mio figlio – incalza Caterina – è entrato in carcere perché sospettato di un reato, non era un criminale, ancora doveva svolgersi il processo». L’attenzione si sposta alle condizioni di salute del ragazzo: «Quando è stato arrestato era in perfetta salute, per oltre un anno lo abbiamo visitato ma nell’ultimo periodo stava spesso male e si lamentava delle grandi difficoltà di ricevere assistenza in carcere. È morto il 18 marzo scorso in solitudine con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari, noi siamo stati avvertiti solo il giorno successivo. Ancora oggi non conosco le ragioni della sua morte». Caterina – dice lei – non conosce le leggi, ma sa che anche se una persona ha sbagliato «deve avere la possibilità di curarsi come qualunque altro». Ha diritto di tornare a casa dopo aver scontato la pena. Oggi c’è un magistrato che si sta occupando della vicenda di Nino. Caterina ha ancora fiducia nella giustizia: «La verità verrà a galla», ripete. Con un augurio che è quasi una preghiera: «Che ciò che è capitato a Nino non succeda mai più a nessun altro detenuto, perché non riesco ad accettare che la vita di una persona detenuta abbia un’importanza diversa rispetto a quella di qualunque altra».