La richiesta di Appello è stata rigettata sulla base della sentenza di primo grado. Gli avvocati: «Riaffermata la dignità di uomo onesto»
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Con la conferma dell'assoluzione perché il fatto non sussiste e il rigetto dell'appello del Pubblico Ministero si è chiusa la vicenda giudiziaria che ha visto l'imprenditore lametino Filadelfio Fedele imputato nel processo Medusa con l'accusa di favoreggiamento personale con l’aggravante di avere agevolato la cosca Giampà. Già in fase cautelare le originarie accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e di concorso in rivelazione di segreti d’ufficio, erano state “ridimensionate” in un’ipotesi di favoreggiamento personale, con l’esclusione dell’aggravante dell’agevolazione del clan lametino. Nonostante ciò l’Ufficio di Procura, anche sulla base di ulteriori apporti dichiarativi di “nuovi” collaboratori di giustizia, aveva chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio per il delitto di favoreggiamento aggravato, ribadendo l’accusa per l'imprenditore di aver favorito la cosca Giampà. Ancora, la Procura – su impulso della Direzione Investigativa Antimafia – aveva avviato un parallelo giudizio di prevenzione davanti al Tribunale di Catanzaro, al fine di ottenere il sequestro di tutti i beni del Fedele (funzionale alla confisca) e l’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti del “proposto”.
Il procedimento di prevenzione, dopo una lunga battaglia giudiziaria, nel corso della quale l'imprenditore lametino – tra l’altro – aveva dimostrato la provenienza lecita di tutti i beni a lui riconducibili, si è concluso con il rigetto integrale della proposta, personale e reale, avanzata dal Pubblico Ministero, sia in primo grado che davanti alla Corte di Appello di Catanzaro. A porre la parola “fine” sul giudizio di prevenzione, poi, ci ha pensato la Suprema Corte di Cassazione, nel gennaio 2017, confermando l’impostazione difensiva con il conseguente rigetto del ricorso presentato dal Procuratore Generale calabrese. Nel luglio del 2017, nel processo penale ordinario, anche il Tribunale Collegiale di Lamezia Terme dopo un lungo dibattimento, aveva assolto Fedele perché il fatto non sussiste, evidenziando la fumosità e genericità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, principali accusatori dell’imprenditore. Esito decisorio che non aveva soddisfatto la Procura Distrettuale, tant’è che il Pm presentò appello chiedendo la riforma della sentenza dei giudici lametini.
Oggi, dopo le arringhe degli avvocati difensori Pino Zofrea e Francesco Iacopino, che hanno presentato anche una corposa memoria corredata da allegati, e una lunga camera di consiglio, un altro punto fermo è stato “segnato” dalla Corte di Appello di Catanzaro con la conferma dell’assoluzione dall'infamante accusa a suo carico, perché il fatto non sussiste. Il Pg aveva chiesto l’accoglimento del gravame e la condanna a quattro anni di reclusione.
Viva soddisfazione è stata espressa dagli avvocati Zofrea e Iacopino al termine della lettura del dispositivo: «Dopo sette anni di autentico calvario, personale e familiare, la conferma della pronuncia assolutoria deliberata dalla Corte di Appello di Catanzaro – che si somma alla decisione dei giudici lametini e, quanto al procedimento di prevenzione, a quelle dei Giudici catanzaresi e della Suprema Corte –, contribuisce a riaffermare la dignità di uomo “onesto” in capo al signor Fedele, ingiustamente privato della propria libertà personale e ingiustamente accusato di fatti che, fondati su mere ipotesi e congetture, prive di riscontri, si sono ancora una volte infranti di fronte a un serio vaglio critico. Ci auguriamo che questa ennesima pronuncia favorevole (la quinta) possa destinare a conclusione questa tormentata vicenda».