Lascia il penitenziario di Cuneo l'esponente apicale dell'omonimo clan di Limbadi e Nicotera detenuto dal 1997. Era stato arrestato nelle campagne di San Calogero dove aveva trovato rifugio dopo essere sfuggito al blitz del giugno 1993 relativo all’operazione antimafia denominata Tirreno
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Torna in totale libertà, dopo 24 anni di ininterrotta detenzione (e carcere duro) il superboss di Limbadi e Nicotera, Giuseppe Mancuso, 72 anni, detto ‘Mbrogghja. Era detenuto dal 1997 quando da latitante era stato arrestato dai carabinieri nelle campagne di San Calogero dove aveva trovato rifugio in un casolare dopo essere sfuggito al blitz del giugno 1993 relativo all’operazione antimafia della Dda di Reggio Calabria denominata “Tirreno” che ha colpito i clan Piromalli e Molè di Gioia Tauro, Pesce di Rosarno, Cutelle di Laureana di Borrello, Albanese di Candidoni e Galati di Mileto.
È stato ritenuto responsabile dei reati di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, associazione mafiosa (alleato ai Piromalli e ai Molè di Gioia Tauro) e di aver ordinato l’omicidio di Vincenzo Chindamo, episodio criminoso risalente all’11 gennaio 1991 ed inserito nella faida che ha opposto le famiglie dei Chindamo e dei Cutellè di Laureana di Borrello. La condanna era arrivata grazie alle rivelazioni dei collaboratori di giustizia Annunziato Raso (killer del clan Molè-Piromalli), Michele Iannello di San Giovanni di Mileto (killer anche per conto di Giuseppe Mancuso e poi condannato per l’omicidio del bimbo americano Nicolas Green), Gaetano Albanese di Candidoni e Giuseppe Morano di Laureana di Borrello.
In precedenza, Giuseppe Mancuso, per fatti compiuti sino al 31 gennaio 1980, ha riportato una prima condanna per il delitto di favoreggiamento personale nei confronti del latitante Michele Cutellè. Il 20 gennaio 2003 è divenuta irrevocabile la condanna rimediata da Giuseppe Mancuso nell’ambito dell’operazione “Count down” della Dda di Milano, dove è stato condannato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico (eroina) in un arco temporale ricompreso fra il giugno del 1990 e il maggio 1992.
Nel 2004 la pena dell’ergastolo gli è stata convertita in 30 anni di reclusione. Ha usufruito di uno sconto di pena (la legge prevede tre mesi in meno per ogni anno di detenzione) e da qui la scarcerazione dopo 24 anni. Nei suoi confronti la Dda di Catanzaro nel processo “Genesi” celebrato dinanzi al Tribunale di Vibo Valentia aveva chiesto 30 anni di reclusione, ma nel maggio del 2013 è stato assolto e la Procura distrettuale non ha impugnato in appello tale assoluzione.
È ritenuto a capo di un’articolazione del clan di Limbadi, ma da sempre ha avuto un rapporto privilegiato con lo zio Luigi Mancuso (cl. ’54) essendo fra l’altro Giuseppe Mancuso (cl. ’49) più grande di età pur essendo nipote di Luigi. Giuseppe Mancuso è infatti figlio del defunto Domenico Mancuso (cl. ’27), fratello più grande di Luigi, nonchè fratello di Francesco (Ciccio) Mancuso (cl. ’29), ritenuto il patriarca e fondatore dell’omonimo clan della ‘ndrangheta, deceduto nel 1997 per un male incurabile. Giuseppe Mancuso ha avuto sempre un ruolo di vertice nell’omonimo clan ed è sempre stato descritto da tutti i collaboratori di giustizia come il boss più temuto e sanguinario, capace di decidere l’eliminazione dei nemici con l’inganno.
Giuseppe Mancuso è fratello di Diego Mancuso (libero anche lui), Francesco Mancuso (detto “Tabacco”, detenuto per l’inchiesta Petrol mafie), Pantaleone Mancuso (detto “l’Ingegnere”), Antonio Mancuso (deceduto) e Salvatore Mancuso (cl. ’72, anche lui deceduto) e Rosaria Mancuso (in carcere quale mandante dell’autobomba di Limbadi costata la vita a Matteo Vinci). Giuseppe Mancuso è il padre di Domenico Mancuso (condannato a 21 anni nel processo “Dinasty, ma attualmente libero in attesa del processo d’appello), Antonio Mancuso (coinvolto nell’operazione Adelfi sul narcotraffico) e Luigi Mancuso (residente a San Gregorio d’Ippona e protagonista di alcune sparatorie eclatanti in tale centro).
Giuseppe Mancuso era detenuto nel carcere di Cuneo. Nel 2019 la Cassazione aveva confermato nei suoi confronti il carcere duro al quale era sottoposto dal 1999.