Paolo Bellini, esponente di estrema destra e indagato per la strage di Bologna, riferisce delle confidenze ricevute dai boss siciliani: «Collegamenti anche con gli Stati Uniti perchè c'era un parente di Totò Riina»
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«Antonio Gioè mi disse di una trattativa fra Cosa nostra, i piani alti del Governo e del collegamento con gli Stati Uniti, poiché c’era un parente di Totò Riina». È l’ex primula nera di Avanguardia Nazionale, Paolo Bellini, a pronunciare queste parole nel corso dell’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista (per i dettagli LEGGI QUI) in corso davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria e che vede alla sbarra Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone.
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La figura di Bellini
Bellini, definito quale personaggio ambiguo nell’ambiente della destra eversiva, da qualche è tempo è nuovamente sotto indagine per la strage di Bologna, dopo una prima archiviazione. Motivo per cui si presenta davanti ai giudici in veste di testimone assistito, con la facoltà anche di potersi astenere dal rispondere alle domande delle parti.
Lui decide, invece, di parlare, anche se con i limiti connessi all’indagine in corso. E di cose da raccontare Bellini ne ha parecchie. Bellini, infatti, è stato in un primo tempo testimone di giustizia, poi diventato collaboratore. In mezzo una vita vissuta dentro le carceri e non solo all’interno degli ambienti di destra, ma anche dentro la ‘ndrangheta e da infiltrato di Cosa nostra. Un uomo nuovo per tutte le stagioni, dunque, che per qualcuno avrebbe fatto parte dei servizi segreti. Cosa che lui smentisce fermamente anche nel corso dell’udienza a Reggio Calabria.
L'omicidio di Alceste Campanile
La figura di Bellini è nota alle cronache anche per un omicidio di rilievo, quello di Alceste Campanile, appartenente a Lotta continua. «Una notte – racconta ai giudici – venne insieme ad un altro vicino casa mia e volevano bruciare l’abitazione mia dove vivevo con la famiglia. E la guerra è guerra. Non ho chiesto il perché, lui è venuto per bruciarci tutti. Basti pensare che quella era una situazione particolare, anche politicamente. Io avevo negli occhi Primavalle e i ragazzi bruciati in quell’abitazione. Così quando ho avuto l’opportunità l’ho ucciso». Parte dell’esistenza di Bellini è trascorsa in Brasile da latitante. «Lì commerciavo orologi fasulli e prodotti farmaceutici. Gli orologi li comprano a 20 mila lire e li rivendevo a 200», si affanna a raccontare ai giudici con un certo compiacimento.
I rapporti con la ‘ndrangheta
Bellini è uomo di ‘ndrangheta. Lui stesso spiega di essere stato inserito nella ‘ndrina Vasapollo-Ruggero di Reggio Emilia. Ma come nasce questa affiliazione di fatto? «Mi trovavo in carcere a Prato – rimarca il testimone – e mi misero in cella con Nicola Vasapollo. Lì si instaura un’amicizia e poi un rapporto di scambio. Lui conosceva i miei trascorsi, io sapevo chi fosse. Mi propone questo scambio d’omicidi che accettai. Da quel momento entrai a far parte della famiglia come consigliere di Nicola Vasapollo. Lui poi venne ucciso ed il mio ruolo diventò quello di killer».
L’incontro con Gioè e l’infiltrazione
Sempre il carcere gli permise di conoscere un pezzo da novanta di Cosa nostra siciliana, Antonio Gioè. Questi era il boss di Altofonte che, il giorno della strage di Capaci si trovava a Punta Raisi. Un uomo di Cosa nostra che morì ufficialmente suicida per impiccagione, ma sulla quale continuano a persistere non pochi dubbi. Bellini non si preoccupa di dire che i suoi rapporti con Gioè risentirono molto di quanto accadde a Capaci (in foto) e Via D’Amelio. «Prima erano buoni, successivamente non avevo più simpatia per Gioè». Ed è proprio dopo le stragi di mafia che Bellini decide di infiltrarsi dentro Cosa nostra. Con la scusa di recuperare delle opere d’arte per conto di politici dell’Emilia Romagna, Bellini prende i contatti con Gioè e si reca più volte in Sicilia. Bellini racconta dei suoi rapporti con il maresciallo Tempesta, che sapeva tutto della sua decisione di infiltrarsi.
La seconda trattativa
L’idea era piuttosto semplice: chiedere ai boss di Cosa nostra di aiutarlo a recuperare delle opere d’arte scomparse. Ma cosa chiese in cambio Gioè? Belini racconta quella che chiama “la seconda trattativa”. Gioè gli avrebbe consegnato un foglio con dentro cinque nomi, fra cui Bernardo Brusca, Pippo Calò e Luciano Liggio. La richiesta era chiara: provare a farli uscire dal carcere per motivi di salute. «Io dissi che avrei visto quello che si poteva fare. E il maresciallo Tempesta, dopo aver letto i nomi, mi disse che forse per uno si poteva fare qualcosa. Mi raccomandò di tenere il canale aperto». Bellini, alias “aquila selvaggia”, incontrò diverse volte Gioè. L’ultima fu assai particolare.
L’attentato alla torre di Pisa
Bellini ricorda di essere stato prelevato dal solito luogo dove si sarebbero dovuti vedere, per essere portato in altra località. «Pensai che quel giorno mi volessero uccidere, ma poi, quando vidi che arrivammo lì e venne Antonio mi dissi che ce l’avrei fatta. Certo, se Gioè avesse scoperto tutto, io non sarei più tornato a casa». Invece Gioè lo affronta con una frase sibillina: «Quella non è gente seria. Che ne direste se un giorno scomparisse la torre di Pisa?».
Bellini risponde con un accondiscendente «Eh certo!», pensando che quella “gente non seria” fossero i politici per i quali dovevano lavorare e ritrovare le opere d’arte. Il pm Lombardo lo invita a riflettere: «È sicuro che quella frase si riferisse a loro?». Bellini conferma, seppur con qualche tentennamento. E poi la successiva domanda: «Poteva essere un messaggio da far recapitare a qualcuno quello della torre di Pisa?». «Potrebbe essere stato un messaggio che io ho anche veicolato, ma in quel momento non mi sono posto il problema. Ricordo che mi parlò anche dell’omicidio Lima, affermando che fu un colpo dato alla Dc nonché uno schiaffo ad Andreotti».
E in questo contesto che arriva la rivelazione della trattativa: «Antonio Gioè mi disse di una trattativa fra Cosa nostra, i piani alti del Governo e del collegamento con gli Stati Uniti, poiché c’era un parente di Totò Riina (in foto)». Ma Bellini afferma di non sapere nient’altro in merito alla presunta trattativa.