La straordinaria vittoria del Pds, l’accelerazione nelle strategie politiche e di mantenimento del potere di mafie, massoneria, reduci di Gladio e pezzi di galassia nera, il ruolo di Gelli e delle «menti raffinatissime», le stragi «necessarie per aprire varchi a nuove forze» e l’ordine di «fare la guerra per fare la pace»
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Fino a che punto «l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro»? Quanto davvero «la sovranità appartiene al popolo»? Non si tratta di materia per politologi, filosofi della politica o sedicenti tali. «I fatti sono la cosa più ostinata del mondo» e oggi è la ricostruzione giudiziaria, basata anche su sentenze ormai definitive, dati acquisiti, avvenimenti storici, a raccontare che l’Italia è stata - e forse è ancora - una democrazia scippata. Mutilata. Piegata all’interesse, al potere, al volere di pochi, a dispetto delle volontà e del benessere di molti. Vittime perché lo hanno subito, in parte forse complici perché non hanno reagito.
Stragi risposta ad un campanello di allarme
Di certo – e il dato emerge con prepotenza nella requisitoria del processo ‘Ndrangheta stragista, che del lungo dibattimento trae le conclusioni - c’è un momento in cui la storia d’Italia cambia. O quanto meno viene distolta dall’esito a cui il naturale corso degli eventi sembra portare. E non si tratta dei tre attentati calabresi contro i carabinieri, incluso quello costato la vita ai carabinieri Fava e Garofalo, per cui oggi il mammasantissima di Melicucco, Rocco Filippone, e il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, sono a processo come mandanti. Quegli omicidi e quei tentati omicidi sono stati la risposta ad un evento che per un intero sistema eversivo di potere - che include componenti mafiose e contamina altri poteri che in ragione di quel rapporto diventano alta mafia - è stato un campanello d’allarme.
Quelle amministrative che hanno accelerato gli eventi
«Nell’autunno ’93 – spiega il procuratore aggiunto Lombardo- il Pds stravinto le amministrative. Occhetto si sentiva già presidente del Consiglio». La storia però non è un processo lineare. E non tutti gli attori remano per lo stesso verso. «Quelle amministrative hanno dimostrato che il “rischio comunista” non era finito – sottolinea Lombardo – e quando il sistema ha capito che il rischio era alto, tra il novembre e il gennaio di quell’anno la storia politica e partitica si incontra con le esigenze dell’alta mafia, e la storia d’Italia cambia».
Un sistema che si rifiuta di morire
Il rischio era che a governare fossero interlocutori sconosciuti, soggetti che per evidenti ragioni storiche nulla avevano a che fare con il blocco di potere, composto da mafie, pezzi di servizi di area Gladio, massoneria legata alla P2 ed eversione nera, coagulatosi all’ombra del muro di Berlino. E che esattamente in quegli anni ha rischiato di liquefarsi perché erano venute meno le condizioni strategiche, economiche e politiche che lo avevano saldato. Ma ha resistito. Con le bombe e con una mutata strategia politica.
Crocevia anni Novanta
Ecco perché gli anni Novanta sono un momento storico – spiega il procuratore aggiunto Lombardo - da ricostruire fino in fondo per capire perché la ‘ndrangheta abbia avuto la necessità – e non solo la volontà – di entrar da protagonista in quella stagione, perché abbia delegato un uomo dei Piromalli, Rocco Santo Filippone alla gestione degli attentati calabresi contro i carabinieri in cui quella decisione si è cristallizzata, perché e in che misura anche il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano sia pienamente responsabile anche di quei tre attentati calabresi.
Stragi manifestazione visibile di una guerra in corso da anni
«Per comprendere quella stagione – dice il procuratore aggiunto Lombardo – non si può prescindere dal contesto economico e politico in cui sono maturati gli attentati».
E questo perchè le stragi, il sangue e i lutti che hanno comportato – emerge con prepotenza dall’istruttoria del processo - sono solo la manifestazione più visibile di una guerra economica e politica che in pochi hanno combattuto sulla pelle di un intero Paese. E gli anni Novanta, quelli delle bombe e degli attentati e delle trattative che volevano dettare, sono solo l’esito di un processo molto più complesso e che ha inizio decenni prima, quando nel Paese «con la terza riserva aurea del mondo», portaerei naturale sul Mediterraneo e con il partito comunista più grande d’Europa, contro il «pericolo rosso» bisognava costruire un esercito di riserva.
Gelli, chiave e alibi di una stagione
Visioni, per alcuni, romanzi, per altri. Eppure ci sono quasi 30 anni di sentenze che parlano dei legami fra mafie ed eversione nera, clan e circuiti massonici legati alla P2, di elementi di vertice di organizzazioni criminali che pentiti – di diversa estrazione e provenienza – accostano al circuito di Gladio o all’entourage di Licio Gelli, Gran Maestro della P2. Una presenza costante nei cosiddetti misteri d’Italia, tanto usurata quanto mai esplorata fino in fondo, divenuta quasi «tappezzeria obbligatoria» dice Lombardo. Sinonimo e alibi di eventi che non possono mai essere ricostruiti. «È un approccio in linea con quello a cui quei soggetti hanno puntato, cioè essere continuamente presenti senza che quella presenza sia di rilievo penale. Eppure questi soggetti hanno consumato condotte contrarie allo stesso dettato costituzionale». E per essere comprese fino in fondo devono essere inserite in un contesto più ampio.
Scenario complesso
«Attenzione, non fate riferimento solo allo scenario nazionale, perché Gelli fa parte di un progetto americano» ha detto nel corso del dibattimento il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo, uscito dal Goi sbattendo la porta dopo aver constatato l’irredimibile colonizzazione delle logge da parte dei clan. E attenzione, la corte di Gelli era grande e composita. «Cosa Nostra e ‘Ndrangheta – sottolinea il magistrato - non sono mai state organizzazioni criminali disgiunte da componenti massoniche di alto livello».
Trent’anni di “coincidenze”
È il caso – ricorda il procuratore, passando in rassegna decine di convergenti dichiarazioni di pentiti, divenute cosa giudicata - dell’avvocato Paolo Romeo, oggi imputato come elementi di vertice della direzione strategica della ‘ndrangheta – il direttorio lo chiama il catanese Di Giacomo https://www.lacnews24.it/cronaca/la-ndrangheta-tra-stragi-e-trattativa_119559/, il «coso di 7» Filippo Chirico -indicato come uomo di Gladio, storicamente vicino a Stefano Delle Chiaie e alla destra eversiva cui faceva riferimento, massone e piduista.
Un affratellamento condiviso con l’avvocato Giorgio De Stefano, che insieme a Romeo ha gestito la latitanza reggina del terrorista nero Franco Freda e la sua “esfiltrazione” fuori dall’Italia e come elemento di massimo vertice dei clan è già stato condannato. Circuiti simili a quelli in cui gravitavano i siciliani Mariano Agate, Tullio Canella e Gioacchino Pennino, che in Calabria – ha raccontato lui stesso dopo essersi pentito – su indicazione di Stefano Bontate, andava a scuola di massoneria. E non a caso, se è vero che nel corso del tempo collaboratori diversi come Leonardo Messina, Pasquale Nucera, Nino Fiume in diversi contesti e forme hanno parlato di mafie come «cosa unica».
Un’unica trama a più firme
Tutti protagonisti di una storia comune e di uno schema comune che si ripete con le medesime sigle a distanza di anni. Dai Moti di Reggio alle stragi, dal boom delle leghe meridionali che nei primi anni Novanta con “Calabria libera” vedono la luce alla nascita di Forza Italia. Uno schema che proprio nei momenti di crisi si mostra in modo palese, perché ha necessità di rendersi visibile per manifestare il proprio potere. Esattamente quello che è successo negli anni Novanta.
Allarme rosso per l’alta mafia
Per le mafie – e la galassia composita di componenti massoniche, politiche, imprenditoriali, istituzionali che nei decenni precedenti le hanno emancipate dall’universo della criminalità spicciola – gli anni che vanno dal ’90 al ’94 hanno rischiato di essere il punto di non ritorno. Quello in cui c’era la possibilità concreta di perdere tutto il potere accumulato. «Di tornare – spiega Lombardo - organizzazioni criminali di certo estremamente ricche, ma che non sono più alta mafia, in grado di incidere sulle scelte economiche e politiche della nazione».
Referenti nuovi, potere vecchio
All’ombra delle necessità strategiche del blocco occidentale avevano acquisito il potere di farlo, ma il crollo del muro di Berlino in Europa e quello della Dc e del sistema della democrazia bloccata in Italia ha messo in crisi i rapporti di forza su cui avevano costruito il proprio potere. Di cui non avevano intenzione di cedere neanche un grammo. Le mafie, insieme al sistema di potere di cui facevano parte, «si guardarono bene dal sostenere i partiti della prima Repubblica non perché avessero perso di credibilità – dice il procuratore aggiunto - ma perché avevano perso una serie di riferimenti che li rendevano sistemi di potere». Cosa nostra e ‘Ndrangheta «non solo scelgono di abbandonare i vecchi referenti politici, ma decidono di appoggiare nuovi soggetti».
Il baricentro Gelli
Una stagione in cui Licio Gelli che «non solo aveva un’interlocuzione storica con le componenti mafiose, ma anche relazioni salde con le altre componenti fondamentali: quella massonica, per il ruolo che aveva avuto nel Goi, e quella della destra eversiva, rappresentata da Stefano Delle Chiaie» assume un ruolo chiave. E poco importa che la P2 fosse stata sciolta e la legge Anselmi che avrebbe dovuto azzerare quella centrale di potere eversivo approvata. «Di Bernardo ci dice “voi pensate di aver sciolto la loggia P2? Voi avete sciolto la sigla, ma non avete sciolto il potere di quel sistema”. Quella struttura, quello stesso contesto massonico di alto livello, si è spostata sotto altra insegna. E la legge Anselmi è stata disinnescata. È la stessa cosa - ricorda Lombardo - che dice Virgiglio, la stessa cosa di cui parlano i pentiti parlando di ndrangheta». Ed ha un senso perché «un sistema di potere occulto si può creare se c’è un sistema di potere palese che si presenta come tale». Che negli anni Novanta rischia di diventare obsoleto, per questo si mette in moto.
Strategia variabile
Nasce l’esigenza non solo di individuare, ma di forgiare nuovi interlocutori politici. Progetti – sottolinea Lombardo - «che non potevano essere portati avanti solo da capi mafia, pur di livello elevatissimo» ma che hanno coinvolto tutte le componenti che il crollo dei vecchi equilibri aveva messo a rischio. E allora si cerca una strada nuova per ripristinare o meglio confermare rapporti di forza vecchi. Prima con l’esplorazione di un’ipotesi federalista con le leghe meridionali, «progetto di impronta gelliana», quindi con la costruzione del prodotto politico Forza Italia, che avrà in Berlusconi – secondo quanto emerso dall’istruttoria, terminale economico di investimenti di mafie- il proprio sempiterno referente.
Da Enna a Parghelia, discussioni parallele
Strategie che per un periodo hanno camminato in parallelo, in attesa di comprendere quale fosse la più efficace. E che sono state discusse in una serie di riunioni di mafia, tanto in Calabria come in Sicilia a partire dagli anni Novanta. Lo dicono i pentiti, quelli che parlano della riunione di Enna e quelli che dicono degli incontri calabresi a Nicotera, a Parghelia, ma soprattutto a contrada Badia, quando ai siciliani le sette componenti apicali decidono definitivamente di dire sì, sebbene formalmente si continui a discutere.
La guerra per la pace
«Quando lo scenario cambia ancora per effetto delle amministrative del ’93, l’ipotesi secessionista viene definitivamente abbandonata. Ma non perché improvvisamente si scopre che il progetto politico di Forza Italia si stava portando avanti. Le componenti apicali lo sapevano già». E il cambio di strategia politica, aggiunge il procuratore, «non manda in soffitta la strategia stragista che doveva aprire varchi alle nuove forze politiche. E questo ce lo conferma Graviano quando spiega che gli era stato ordinato che le stragi non si fermassero». E – dicono i pentiti – lo aveva comandato Totò Riina. «Bisogna fare la guerra per poi fare la pace».
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