L’agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita poco dopo l’esplosione della bomba che lo ha ucciso. L’omicidio del poliziotto Nino Agostino. Quei politici e imprenditori che all’epoca delle stragi si dividevano fra chi «voleva che continuassero» e chi invece avrebbe cercato un canale per fermarle, come quel «primo ministro che chiese di informarsi al riguardo a amici di Enna», lì dove si riuniva la Cupola, e per questo ha rischiato di essere eliminato.

 

E poi Silvio Berlusconi, che «non era fra chi voleva fermare le stragi», fin dagli anni ‘80 dalle famiglie siciliane avrebbe ricevuto fondi per «Milano 3, le televisioni, Canale 5, tutto» e «deve rispettare i patti».

Graviano sceglie il silenzio

Non sono che alcuni degli argomenti che il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, imputato insieme a Rocco Filippone per gli attentati contro i carabinieri con cui la ‘ndrangheta ha confermato la propria partecipazione alla strategia stragista, ha messo sul piatto.

 

Quattro udienze show, una valanga di messaggi diretti più all’esterno dell’aula che alla Corte e alle parti, e poi – improvviso – il cambio di rotta. «Vorrei comunicare la decisione del mio assistito di rinunciare all’esame», afferma il legale di Graviano, Giuseppe Aloisio, quasi al termine dell’udienza.

«Non ci è stato permesso di trovare riscontri»

Il boss di Brancaccio - che negli ultimi mesi ha quasi conteso al suo legale il ruolo di difenderlo, intervenendo più e più volte per raccontare la propria verità - si è trincerato nel più assoluto silenzio. E ha lasciato all’avvocato Aloisio il compito di spiegare le ragioni dell’improvviso cambio di rotta.

 

«Non vi è il timore di rispondere, ma vi è la consapevolezza che le sue dichiarazioni rimarranno prive di riscontro che doveva arrivare tramite alcuni collaboratori, non ultimi Mandalà e Spataro, ma su alcune domande questo non è stato permesso», afferma in aula l’avvocato.

Gli “imputati” di pietra della difesa e lo scambio al vetriolo con la Corte

Un riferimento, neanche troppo velato, al pentito Totuccio Contorno, nel mirino di Graviano già dagli anni Novanta e che a detta del boss di Brancaccio, avrebbe avuto un ruolo nella sua caduta. Una tesi che ha cercato di insinuare più e più volte nel corso delle quattro lunghe udienze d’esame.

 

«Avremmo voluto dimostrare il rapporto fra alcuni personaggi e certi imprenditori», dice l’avvocato Aloisio, «ma non ci è stata data la possibilità di esplorare questi argomenti». E in aula è il caos. Insorge il procuratore aggiunto Lombardo. «Avvocato, non vorrà certo introdurre lei i temi di cui avrebbe voluto parlare il suo assistito», dice, gelando il legale. «Ritengo che il diritto di difesa sia stato pienamente rispettato», tuona la presidente.

L’inspiegabile silenzio di Graviano

Uno scambio ad alta tensione, mentre da Terni arrivava solo il ronzio della videoconferenza. Graviano è rimasto in silenzio. Proprio lui, che più volte dalla presidente è stato richiamato per l’abitudine a parlare citando atti, pareri e sentenze, a lanciarsi quasi in arringhe a difesa di se stesso, non ha detto neanche una parola.

 

Eppure, in mattinata, il suo legale per lui era tornato a far pressioni perché gli venissero consegnati al più presto i file audio delle conversazioni intercettate in carcere con la sua “dama di compagnia”, Umberto Adinolfi, al cui riascolto Graviano da mesi subordina la prosecuzione dell’esame.

Tutta colpa di una informativa?

Quaranta minuti dopo o poco più, l’avvocato Aloisio interviene per far sapere che il boss di Brancaccio ha cambiato idea. Sì, lui e il suo assistito insistono perché tutto – audio, brogliacci, tutto quello che c’è – venga acquisito agli atti. Ma Graviano non vuole parlare più.

 

In mezzo, oltre alla deposizione del pentito Diego Zappia – il primo a raccontare con precisione e dettagli del ruolo e dell’importanza di Filippone nella ‘ndrangheta reggina – è arrivato l’annuncio di deposito di una nuova attività integrativa di indagine. Che per Graviano potrebbe essere un problema ad oggi né previsto, né calcolato.

Dai Graviano ai Piromalli, le strade che portano a Fininvest

Per anni nascosto, il crocevia fra gli interessi economici e finanziari milanesi di Graviano e della sua famiglia, di cui lo stesso boss di Brancaccio ha parlato, e quelli della galassia Piromalli, potrebbe essere stato individuato. E sta dalle parti di Fininvest e delle sue controllate.

 

Su delega del procuratore aggiunto Lombardo, la Dia ci è arrivata seguendo la traccia lasciata – diversi anni e processi fa – da Angelo Sorrenti, grande mattatore del mondo di ripetitori e antenne in Calabria negli anni Novanta, oggi – ha anticipato il procuratore – possibile da ricondurre alla galassia Piromalli. E al mondo di Fininvest. Uno di quei business a detta di Graviano sviluppati da Silvio Berlusconi anche grazie al denaro arrivato dalla Sicilia.

 

«C’è una scrittura privata che è rimasta a mio cugino», morto anni fa di tumore, ha più volte ricordato/minacciato Graviano nel corso delle udienze.

«Vi racconto io di Filippone»

Perché Graviano potrebbe sentirsi minacciato? Perché – anche grazie alle sue dichiarazioni - si tratta del primo, concreto, tangibile punto di contatto fra la galassia di Graviano e quella dei Piromalli. E che Filippone, fosse nella loro orbita e per di più, con ruolo di estremo rilievo, in passato lo hanno detto i collaboratori, come oggi lo ha precisato in dettaglio il pentito Diego Zappia. Può farlo.

 

Il nome di Filippone era uno dei tre inseriti nella sua “copiata” – una sorta di triade di garanzia dell’affiliato – quando è entrato nel mondo della ‘ndrangheta che conta con la dote di trequartino. «Mi hanno detto che Filippone era il responsabile dei trequartini per tutta la provincia» dice in aula.

Le regole delle élites

E che avesse un ruolo di peso, aggiunge, lo dimostra la deferenza con cui da tutti veniva trattato in carcere, nonostante in famiglia vantasse anche un pentito, il nipote Giuseppe Calabrò, uno degli esecutori degli attentati contro i carabinieri. A fasi alterne, Calabrò ha collaborato con i magistrati.

 

Quasi un peccato mortale per la ‘ndrangheta. Ma non per Filippone. Che anzi, poteva anche parlarne, come ha fatto con lo stesso Zappia.

 

«Mi disse che aveva ritrattato, ma che comunque lui non aveva più avuto rapporti con lui. Non ricordo bene, ma credo che abbia accennato al fatto che ci aveva parlato sua sorella, ma non ricordo bene».

 

Le visite durante le quali Marina Filippone ha provveduto a ricordare al figlio di avere fratelli e famiglia fuori, sono state intercettate e registrate. Quel tentativo di indurre Calabrò al silenzio è rimasto su nastro ed è diventato dato giudiziario.