La priorità è quella di non fermarsi mai. Nonostante le indagini, gli arresti, i sequestri. Investire continuamente in nuove aziende, reinventarsi quelle che potrebbero essere finite nel mirino degli inquirenti, assicurarsi che le sopraggiunte amministrazioni giudiziarie non intervengano ad infastidire i piani di espansione economica e criminale della locale di Roma.

Locale – la prima individuata all’interno del Raccordo con caratteri di «struttura periferica, organica e autonoma ma collegata con la casa madre» – alla cui guida ci sarebbe «la diarchia» costituita da Vincenzo “Beccasusu” Alvaro e Antonio “Scarcotta” Carzo: un capo per gli affari in cui investire i capitali illeciti del clan, un altro per mantenerli al sicuro e garantirne la continua espansione. E se molte delle dinamiche criminali di questo nuovo “soggetto” mafioso erano venute fuori con gli arresti di marzo, questo nuovo intervento degli inquirenti, ha fissato la capacità della presunta cosca di rinascere dalle proprie ceneri.

Il sistema è sempre lo stesso: fare girare il denaro tra una società e l’altra, trovare le teste di legno adatte per schermare le attività acquisite, puntare sul mattone per consolidare gli investimenti attraverso l’acquisto delle “mura” che ospitano bar e ristoranti finiti nella rete della cellula di ‘ndrangheta. E se poi ci sono magistrati e forze dell’ordine a mettersi in mezzo con le loro indagini, basta trovare un fantoccio a cui intestare tutto.

A spiegare il sistema, sottolineandone le falle dentro cui la cosca era riuscita a ritagliarsi uno spazio vitale oltre le indagini, è lo stesso Alvaro, intercettato dagli agenti della Dia mentre impartisce una lezione di real politik criminale ad un sodale: «Bisogna trovare un polacco, un rumeno, uno zingaro a cui regalare 500/1000 euro a cui intestare sia le quote sociali e le cose e le mura della società – racconta il presunto boss – poi tutte queste cose che dicono e ti attaccano sono tutte minchiate ..io ho fatto un fallimento di un miliardo e mezzo e ho la bancarotta fraudolenta...mi hanno dato tipo l’articolo 7 e poi mi hanno arrestato...mi hanno condannato... e ancora devo fare l’Appello...vedi tu...è andato in prescrizione...le prescrizioni vanno al doppio delle cose».

Resettare tutto

Uno dei metodi con i quali la ‘ndrina provava a nascondere agli inquirenti la reale proprietà delle attività commerciali – legate principalmente al settore della ristorazione e ormai disseminate in tutto il contesto urbano della Capitale, dalle periferie più degradate ai molti “salotti buoni” del centro – era quello di «resettare tutto».

Nella sostanza, spiega il Gip nella nuova ordinanza d’arresto, la cosca era in grado, ciclicamente, di spostare fittiziamente le società da un prestanome ad un altro, effettuando i pagamenti tramite capitali illeciti e finte operazione finanziarie. Una sorta di sistema di vasi comunicanti che si concretizza con «l'utilizzo di una società nuova, l’acquisizione dei contratti di locazione e la distrazione dei beni, insegne, ditta ed avviamento dell’azienda in difficoltà appartenente alla società da abbandonare». In questa Babele di scambi societari, il perno di tutto restava quindi «l’abbandono della società ritenuta compromessa. Questo – scrive ancora il Gip –  era lo strumento che il clan ’ndranghetista utilizzava stabilmente per continuare a possedere attività commerciali mediante l’intestazione fittizia (nonchè frodi fiscali, riciclaggio ed autoriciclaggio di somme di denaro di illecite provenienza movimentate spesso in contanti) per non perdere il controllo economico delle stesse».

Un sistema ormai collaudato e che il gli uomini e le donne del clan avevano messo in piedi per «dimostrare di essere più forti dello Stato, delle autorità giudiziarie, delle indagini di polizia, dei creditori e dei sequestri penali, di prevenzione e civili, come chiaro monito alle popolazioni locali, che loro non potevano essere sconfitti e che gli altri dovevano subire o avere paura».