A distanza di 5 mesi dalla tragedia in cui morirono almeno 60 persone arriva il riconoscimento del cadavere della ragazza uccisa sul barcone. Lunedì l’autopsia. Intanto la madre è partita per la Germania ma prima di sapere del ritrovamento ha pianto nel cimitero di Armo
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Ha finalmente un nome, uno dei corpi recuperati dopo giorni di ricerca nelle acque al largo di Roccella e rimasto finora associato ad un cartellino con un numero. Si tratta della giovane Maylan Qadir, la ragazza irachena di sedici anni che sarebbe stata uccisa da un altro sopravvissuto al naufragio di giugno appena poche ore prima che un veliero battente bandiera francese rinvenisse il relitto del “Barracuda” recuperando i pochi sopravvissuti. È stato l’esame del Dna a confermare l’identità di quel giovane corpo recuperato dal mare e ora, a distanza di cinque mesi dal naufragio, sarà l’autopsia disposta dalla procura di Locri a stabilire quale sia stata la causa della morte della ragazza, chiudendo (forse) il cerchio su una storia tremenda che ha sommato dolore a dolore.
La testimonianza
«Mia figlia è stata uccisa da un uomo durante il viaggio, questo avveniva al terzo giorno di navigazione quando eravamo già in condizione di pericolo. Mia figlia non stava bene, era sul ponte della nave e nei giorni precedenti aveva ingerito acqua di mare e aveva nausea ed era priva di forze».
Era stata la madre di Maylan, Mojda Omar, a denunciare agli uomini del commissariato di Siderno le circostanze che hanno potato alla morte della ragazza. Una testimonianza forte, arrivata da un letto dell’ospedale di Soverato dove era ricoverata in seguito alle profonde ferite riportate dopo il naufragio. Una testimonianza che inchioda Haukar Ahmadi, iraniano di 35 anni (attualmente detenuto e che ha sempre respinto le accuse) che si era imbarcato dalla Turchia con la moglie e il figlio, entrambi morti nei giorni successivi al semi affondamento del barcone rimasto per giorni in balia della furia del mare. «Eravamo vicini sulla barca con l’acqua al petto. La mattina del giorno che ci hanno salvato e portato in Italia, Haukar si era avvicinato, era prima pomeriggio e c’era luce. Mia figlia era viva e parlava con me, lei mi diceva di essere esausta e di non volere vivere. All’improvviso Haukar si avvicinava a mia figlia e saliva sopra di lei appoggiando entrambe le ginocchia sul petto, premendo forte con tutto il peso del suo corpo. Penso sia morta quasi immediatamente». Nel racconto della donna, che su quel veliero maledetto partito dalla Turchia pochi giorni prima aveva perso anche il marito e un altro dei suoi figli oltre ad una sorella e due nipotine, riemerge la drammaticità di quei giorni, con il barcone ormai parzialmente sott’acqua e con i pochi sopravvissuti costretti a bere acqua di mare e a contendersi uno spazio in coperta guardando almeno cinque imbarcazioni – hanno raccontato i superstiti – passare oltre, ignorando le richieste di aiuto da parte dei naufraghi.
La chiusura del cerchio
Una vicenda tremenda e dai risvolti amari quella di Mojda Omar, che dopo il ricovero era stata trasferita nel centro Sai di Acquaformosa nel Cosentino, assieme ad uno dei figli e alla nipotina di appena dieci anni. Devastata dal dolore, la donna è rimasta nel paesino montano per qualche mese, accudita dagli operatori del centro Sai, decidendo poi di abbandonare il progetto d’accoglienza per raggiungere quello che è rimasto della sua famiglia, probabilmente in Germania. Un viaggio che chiude un cerchio iniziato a giugno da un anonima spiaggia della Turchia (quasi nessuno dei migranti in arrivo sulla rotta turca decide di restare in Italia, preferendo raggiungere amici e familiari nel resto d’Europa) e terminato in tragedia e senza avere potuto piangere sul corpo della sua bambina, partita con la speranza di una nuova vita lontana dalle persecuzioni contro l’etnia curda e morta su un barchino alla deriva tra la Grecia e l’Italia. Mojda infatti, qualche giorno prima di lasciare la Calabria, era voluta andare a fare visita alle salme seppellite nel cimitero di Armo a Reggio, in un abbraccio simbolico alla figlia e alle vittime dell’ennesimo naufragio di migranti nel Mediterraneo. Una visita carica di significati, arrivata però, ironia della sorte, con qualche giorno d’anticipo. La notizia dell’esame del Dna è infatti giunta solo una manciata di giorni fa, quando Mojda aveva già preso un autobus che l’avrebbe portata lontana dalla Calabria.