Francesco Verri si occupa della tutela legale dei sopravvissuti e dei familiari dei morti nella tragedia del febbraio scorso: «Quella notte le autorità si sono macchiate di gravissime omissioni perché avevano l'obbligo di prestare soccorso»
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«Il naufragio di Cutro ha cambiato tutto: la guerra ci ha toccato in prima persona, le bombe sono scoppiate sotto i nostri occhi, davanti alle nostre case». Francesco Verri è uno degli avvocati che, nelle ore immediatamente alla più grande tragedia marittima della storia degli sbarchi migranti sulle coste calabresi, è sceso in campo garantendo tutela legale ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime di un naufragio assurdo, costato la vita a più di 90 persone annegate ad un passo dalla spiaggetta di Steccato. Attraverso lui, inserito tra i Calabresi dell’anno 2023, vogliamo rendere omaggio alle vittime, ai loro familiari, ai volontari e a tutte le persone che di fronte a una delle più grandi tragedie che abbiano colpito questa terra hanno deciso di non voltarsi dall’altra parte.
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«Una delle immagini che più mi ha colpito di quei giorni è quella di una donna che accompagna la madre al Pala Milone: la donna anziana fa fatica a fare le scale, ma vuole comunque rendere omaggio alle vittime, come se si trattasse del funerale di un parente, di un figlio. Fino a quel momento Crotone aveva vissuto il fenomeno degli sbarchi con tolleranza e con quella capacità di inclusione tipica del Sud che ha conosciuto e continua a conoscere l’emigrazione, ma anche con una certa indifferenza. Da quel giorno in avanti, tutto è cambiato».
È la notte del 26 febbraio, una notte di tempesta con il vento che gonfia le onde e strapazza una vecchia carretta del mare al cui interno cercano salvezza 180 persone: uomini, donne, decine di bambini. Sono partiti da una spiaggia del distretto di Cesme, in Turchia, quattro giorni prima. Un viaggio, l’ennesimo sulla rotta orientale, attraverso il Mediterraneo fino alle coste della Calabria jonica, una delle “porte” più trafficate per l’ingresso in Europa. Il barcone, un vecchio caicco in legno che tiene l’acqua a fatica, è stipato all’inverosimile con i migranti, che per quel viaggio hanno pagato fino a 7mila euro a testa, costretti a rimanere sotto coperta nel tentativo di eludere i controlli.
Sembra l’ennesimo sbarco “autonomo” - uno dei tanti che avvengono sulla rotta turca – ma qualcosa va storto. Il pilota del barcone, nel tentativo di raggiungere un punto di sbarco isolato, compie una serie di manovre pericolose e il caicco finisce per abbattersi su una secca a poche centinaia di metri dalla spiaggia, disintegrandosi. Almeno 90 i morti, annegati ad un passo dalla salvezza. Per quel naufragio, sei scafisti sono finiti a processo con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio colposo e morte come conseguenza del reato di favoreggiamento all’immigrazione.
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La legge del mare
«Il procedimento è un atto dovuto – dice ancora Verri, che assieme agli avvocati Mitja Gialut, Luigi Li Gotti e Vincenzo Cardone, ha formato un pool legale che si occupa dei familiari di 27 delle vittime di quel naufragio – dobbiamo processare chi compie questi viaggi per profitto, perché il traffico di migranti è reato, ma il tema non è certamente quello. Quella notte le autorità italiane hanno mostrato assoluta indifferenza per quello che stava succedendo. Non so se si sia trattato solo di impreparazione ma non voglio neanche pensare ad un coinvolgimento della politica. Di sicuro però quella notte l’Italia si è macchiata delle più gravi omissioni che si potevano commettere, perché aveva l’obbligo di prestare soccorso. Lo dice la legge del mare, lo dice la nostra Costituzione e lo dice anche la Commissaria europea per i diritti umani che, con una risoluzione del 2019 indirizzata ai paesi costieri, mette in chiaro che “le barche migranti devono essere considerate in pericolo per definizione, soprattutto con mare e vento forte”». E quella barca (individuata da un aereo di Frontex già la notte precedente al naufragio) in balia del mare in burrasca e priva di ogni dispositivo di sicurezza, era certamente in pericolo.
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Gli indagati
«Quando è arrivato l’avvertimento di Frontex, questo è stato codificato correttamente, perché la Guardia di Finanza, nel brogliaccio scritto a penna immediatamente dopo l’allarme lanciato da Frontex, dice “avvistata barca con migranti”. E allora, se questa barca è sovraffollata, se si sa che la stessa è scassata e governata da personale inadeguato, è chiaro che devi intervenire, cosa aspetti? Nei 18 mesi precedenti al naufragio di Steccato di Cutro, mesi che noi abbiamo preso in esame, Gdf e capitaneria sono uscite in mare per salvataggi in 18 casi distinti, anche a distanza di 80 miglia dalla costa. Se esci a 80 miglia con mare calmo, a maggior ragione devi uscire col mare agitato. I mezzi della Capitaneria di porto sono praticamente inaffondabili, ma davanti alla spiaggia di Cutro quei mezzi ci sono arrivati con quasi due ore di ritardo».
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Sui “buchi” nella catena di soccorsi la Procura di Crotone ha iscritto sei nomi nel registro degli indagati: Alberto Lipollis (comandante del Roan, il reparto aeronavale delle fiamme gialle, in servizio a Vibo), Nicola Vardaro (comandante dell’aeronavale di Taranto) e Antonio Lopresti, in forza al Roan di Vibo, a cui si devono aggiungere altri tre nomi, attualmente coperti da omissis. La chiusura delle indagini per questo troncone del procedimento potrebbe arrivare a giorni. «Sarà uno dei processi del secolo, e sono certo che sarà in grado di cambiare le politiche di accoglienza in Italia e in Europa. Sarà un punto di non ritorno – dice ancora Francesco Verri – perché una cosa del genere non deve succedere mai più».