È il silenzio l’elemento che più risalta nell’ennesima tragedia del Mediterraneo. Un silenzio assordante, che ha coperto le urla di più di 50 morti rimasti per giorni in balia del mare su un barchino affondato per metà, ha ammantato i pianti dei soli undici superstiti sparpagliati in quattro ospedali diversi sul territorio regionale, e ha attutito fino quasi a nasconderle, le proteste dei familiari delle vittime, arrivate a Roccella da mezza Europa, e costretti a girovagare per mezza Calabria alla ricerca dei propri morti, disseminati tra le morgue di Locri, Reggio e Polistena e un container refrigerato all’interno del blindatissimo porto di Gioia Tauro.

È la notte tra il 16 e il 17 giugno quando un piccolo veliero francese si accorge della presenza in acqua di un relitto semi affondato. Il diportista riesce a recuperare 12 sopravvissuti (tra cui due bambini) ma all’appello mancano almeno altre 50 persone che qualche giorno prima erano partite da Bodrum, in Turchia, per raggiungere sulla “rotta turca” le coste calabresi. Durante la traversata però qualcosa va storto e il piccolo monoalbero rimane in avaria in balia del mare al confine tra le acque Sar di Grecia e Italia. Poi la situazione, già drammatica, si aggrava: forse un problema al frigorifero di bordo o forse un battello di salvataggio aperto sotto coperta (le testimonianze dei sopravvissuti non sono molto precise) provoca un’esplosione e un incendio le cui conseguenze saranno visibili sui corpi dei sopravvissuti soccorsi sulle banchine del porto delle Grazie a Roccella. Durante le interminabili ore trascorse su quel pezzo di barca rimasto a galla, i migranti lottano per la sopravvivenza ma solo dodici di loro riusciranno a rimanere in vita fino all’arrivo dei soccorsi. Uno di essi, una donna in stato di gravidanza, morirà sulla motovedetta della capitaneria di porto per le ferite riportate nel naufragio, durante la traversata verso Roccella.

Una tragedia immensa, la seconda per gravità sulla rotta turca dopo il naufragio di Steccato di Cutro. Ma se per Cutro, anche a causa dei morti riversati sulla spiaggia del piccolo comune crotonese, l’intero Paese si strinse attorno ai familiari delle vittime e ai corpi dei naufraghi (a cui rese omaggio con grande dignità anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, volato a Crotone il giorno stesso della tragedia) a Roccella le cose hanno preso una strada decisamente diversa. Nessun Consiglio dei Ministri allestito in fretta e furia nel municipio di Cutro, nessuna camera ardente pubblica, nessun “mai più” recitato a favore di telecamera dal politico di turno. A Roccella, la parola d’ordine (seppur mai espressa chiaramente) è stata “oblio”. Come spiegarsi altrimenti la cervellotica decisione di sparpagliare i morti ai quattro angoli della provincia impedendo di fatto, la rappresentazione visiva dell’entità della tragedia. O l’altrettanto stravagante decisione di scaglionare le vittime in quattro porti d’arrivo differenti, spiazzando gli stessi operatori dell’informazione – cronisti e fotoreporter e operatori tv – e impedendogli di assistere alle operazioni di sbarco. Un silenzio che ha toccato la politica – nessuna dichiarazione ufficiale da parte del Governo Meloni e del governo regionale targato Occhiuto – e le ramificazioni territoriali dello Stato che, da parte loro, non hanno ritenuto necessario neanche allestire un punto stampa e limitandosi a pochi, scarni, comunicati stampa. E poi il silenzio sulle procedure di identificazione dei corpi (ad oggi non siamo ancora certi di quanti cadaveri siano stati identificati) e quello sul loro rimpatrio.

Ad ingarbugliare la matassa poi, resta la telefonata che Alarm Phone avrebbe inoltrato alle autorità italiane due giorni prima del may day ufficiale ma che non risulta in nessuno dei dispacci ufficiali rimbalzati in quelle ore dagli uffici romani della capitaneria di porto. Una storia tremenda, l’ennesima maturata sulla rotta turca, passata, colpevolmente, in secondo piano.