Nel suo memoriale difensivo il boss di Brancaccio si dice vittima di un complotto ordito da Berlusconi e pezzi di Cosa Nostra, per tutelare «gli interessi di qualcuno o più di qualcuno»
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Ha usato il processo ‘Ndrangheta stragista per rompere un silenzio lungo vent’anni, mandare messaggi, ricordare che è un boss. E adesso, a poche ore dalla sentenza che stabilirà insieme al mammasantissima calabrese Rocco Filippone, è il mandante degli attentati calabresi contro i carabinieri con cui la ‘Ndrangheta ha detto sì agli attentati continentali e alle trattative che hanno dettato, Giuseppe Graviano non rinuncia ad inviare un ultimo messaggio. Su di lui, come sul suo coimputato, pende una richiesta di condanna all'ergastolo, avanzata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel corso di una requisitoria che ha saputo valorizzare le parole che Graviano si è fatto scappare in aula.
Il memoriale della “vittima” Graviano
Forse per questo il boss non parla, si affida ad un memoriale difensivo di 54 pagine inviato alla Corte negli ultimi giorni di processo. Ma continua a dire e non dire, a mischiare le carte, mandare messaggi che sembrano diretti più all’esterno che all’interno dell’aula. Si atteggia a vittima Giuseppe Graviano. «È da più di vent'anni che molti cerchi vengono chiusi utilizzando la mia persona, mi auguro che questo processo non rappresenti l'ennesimo compasso da utilizzare per tracciare la figura geometrica». Il boss condannato a diversi ergastoli per le stragi come per l’efferato omicidio di don Pino Puglisi, si racconta capro espiatorio designato di «un più ampio disegno, tracciato da "qualcuno", che ha condotto al mio coinvolgimento nelle vicende stragiste per le quali sono stato condannato». Quelle che un esercito di pentiti – in maniera concorde- gli hanno attribuito, che rispondevano a precise esigenze politiche, economiche e strategiche, che sentenze ormai definitive attribuiscono indiscutibilmente a Graviano.
Non vedo, non sento, non dico perché ho parlato
Ma lui – si giustifica – ha smesso di interessarsi ai suoi processi «già dal mio matrimonio, celebrato il 20.02.1996, in quando non c'è stato l'avvento della videoconferenza e, comunque, anche dopo la nascita di mio figlio Michele, avvenuta il 26.06.1997 (il giorno dopo mi trasferiscono a Spoleto)». Come e perché sia tornato l’interesse dopo aver accumulato ergastoli sufficienti per più vite dietro le sbarre non lo spiega. Tanto meno perché abbia scelto Reggio Calabria per rompere un silenzio durato decenni, dietro cui improvvisamente è tornato a trincerarsi.
Strategia della confusione?
In quelle cinquantaquattro pagine continua a mischiare le carte, Giuseppe Graviano. Non ammette mai il suo ruolo, ma parla in dettaglio di storia e assetti di Cosa Nostra, elenca schieramenti, ruoli, storie. Sottolinea che suo padre è morto da incensurato, lascia intendere che con quel mondo la sua famiglia non ha nulla a che fare, ma si scaglia contro i pentiti e rivendica la scelta di non aver mai collaborato. E torna a puntare il dito contro Silvio Berlusconi, contro le famiglie dei collaboratori di giustizia Totuccio Contorno e Gaspare Spatuzza, contro non meglio precisati «soggetti» che con loro avrebbero agito. E tutti insieme gli avrebbero distrutto la vita.
Confermati i rapporti con Berlusconi. Silenzio su Forza Italia
È vero, dice confermando quanto dichiarato in aula, con Silvio Berlusconi la sua ed altre famiglie siciliane erano in rapporti fin dagli anni Settanta. Ma imprenditoriali. Alla politica, il boss di Brancaccio si guarda bene dal far riferimento nonostante la “discesa in campo di Berlusconi” – decisa a due passi dal bar in cui il fallito attentato all’Olimpico è stato ordinato - abbia segnato la fine delle bombe e delle stragi. Ma a quello Graviano non accenna, parla solo di soldi. Dalla Sicilia ne sarebbero partiti – in modo occulto, ovviamente – a fiumi. Affari sempre smentiti dal padre padrone di Forza Italia, ma su cui il boss di Brancaccio fornisce dettagli. Quei miliardi – sostiene – sono finiti «nelle televisioni, nell’edilizia, tutto». Ma Berlusconi non avrebbe restituito ai suoi finanziatori occulti il 20% di ogni affare realizzato come pattuito. Anzi – afferma il boss di Brancaccio - proprio a ridosso di un incontro già fissato dal notaio per formalizzare quel debito, lui sarebbe stato arrestato. In modo anomalo, ci tiene a sottolineare. E poi rilancia.
E gli altri?
Il padre padrone di Forza Italia, a detta del boss, avrebbe avuto rapporti con Cosa Nostra anche prima di quell’affare. «Ha avuto sempre un rapporto stretto e privilegiato con il gruppo Contorno, Bontate e soci». E tutti insieme, inclusi i pentiti Totuccio Contorno e Gaspare Spatuzza, avrebbero progettato la sua rovina. «Vi è però un'altra persona che ha avuto un ruolo strategico in tutto ciò – scrive Graviano- il riferimento è a Berlusconi». Per Graviano, «tutti hanno quindi dato un contributo, non solo per il mio arresto, ma anche per costruire un castello di accuse per mettermi fuori dai giochi, inserirmi nei contesti stragisti e poi condurmi fino a Reggio Calabria».
Un disegno per tutelare «qualcuno o più di qualcuno»
Insomma, Graviano si racconta come un’inconsapevole vittima di «un più più ampio disegno, tracciato da "qualcuno", che ha condotto al mio coinvolgimento nelle vicende stragiste per le quali sono stato condannato». Chi sia questo qualcuno non lo dice. Eppure è un’espressione che ripete più e più volte anche quando accenna a parte del complotto di cui sarebbe stato vittima, che tocca misteri ancora irrisolti, dalla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino all’omicidio del poliziotto Nino Agostino, tutti funzionali ad «un disegno criminoso per tutelare gli interessi di" qualcuno" o più di" qualcuno"». Chi? Graviano continua solo ad accennare, fare intendere, omettere nomi.
L’accusa del boss: «Un magistrato ha sottratto l’agenda rossa»
Per indicare chi avrebbe fatto sparire l’agenda rossa di Paolo Borsellino si trincera dietro un soprannome. Era un «personaggio della Palermo bene, che ricopriva anche il ruolo di Magistrato della Procura di Palermo, è soprannominato "Borotalco"». Uno di quelli – scrive il boss – che frequentava abitualmente la bisca clandestina che negli anni Novanta funzionava al teatro Massimo di Palermo. E perdeva. «Trovò il modo di barattare l'esoso debito consegnando un'agenda, quella rossa, che era di proprietà del Dr. Borsellino» scrive il boss nel memoriale. Non spiega come, né perché ne sia a conoscenza, ma assicura che dentro c’erano «tra gli altri documenti, vari riferimenti all'omicidio di mio padre e ad altri omicidi e fatti a questo collegati, come il riferimento ad alcuni poliziotti di Palermo». Riferimenti vaghi per i più – si ragiona in ambienti investigativi - magari messaggi precisi per qualcuno.
L’omicidio del poliziotto Agostino
Quell’agenda, continua il boss, sarebbe stata «recuperata direttamente sul luogo della strage» e «da lui trattenuta», ma adesso sarebbe «nelle stesse mani degli autori dell'omicidio di mio padre nonché dell'omicidio del poliziotto Agostino e per finire di quei soggetti che erano presenti in via D'Amelio». Soggetti nell’orbita di Contorno, ma non solo. Perché a decidere di uccidere l’agente, ammazzato a Villa Grazia di Carini insieme alla moglie, sarebbero stati «gli stessi colleghi del poliziotto Agostino». Chi? Anche in questo caso Graviano si guarda bene dal fare nomi. Si sbilancia solo su Giovanni Aiello, l’ex poliziotto della Mobile che vari pentiti hanno individuato come agente dell’intelligence responsabile di stragi e omicidi, riconosciuto dal padre dell’agente Agostino come l’uomo che avrebbe fatto visita – e assai turbato - il figlio qualche giorno prima dell’omicidio. E Graviano fa di tutto per scagionarlo.
«Vi dico io chi è faccia di mostro»
Aiello no, non c’entra, altri del gruppo di Contorno avrebbero avuto il viso sfigurato, come se non più di lui. Anzi, l’ex poliziotto finito al centro di tanti misteri, omicidi irrisolti e attentati, prima e dopo la stagione delle stragi, sarebbe stato anche lui una vittima. «È sempre lo stesso personaggio che viene utilizzato strategicamente per insabbiare la verità». Ma è morto anche lui. Qualche giorno dopo l’esecuzione di ‘Ndrangheta stragista, si è accasciato improvvisamente sulla spiaggia di Montepaone lido, in Calabria. «Apparentemente è morto di infarto, ma finché non ho la prova provata di quello che dico mantengo lo scetticismo tipico dell'investigatore» ha detto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel corso della sua requisitoria. Un intervento fiume, durato cinque udienze e che si è prolungato da mattina a pomeriggio inoltrato, poi completato da una memoria scritta da quasi tremila pagine. Tutte necessarie – ha detto Lombardo – per smontare una mistificazione che dura da oltre trent’anni. O forse di più.
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