«Mio padre e Giovanni Falcone hanno lavorato insieme. In silenzio. E credo che questo possa aver inciso sulla sua morte. Ecco perché desidero una verità che sia vera, anche se sono cosciente che occorre riscrivere la storia dell’antimafia degli ultimi decenni».

 

Non aveva ancora 8 anni, Rosanna Scopelliti, il 9 agosto del 1991. Attendeva il ritorno di suo padre come tutte le sere. Ma quel giorno fu diverso, perché i colori accesi di un tramonto d’estate in riva allo Stretto furono d’improvviso oscurati dall’ombra di una morte fulminea, che rubò persino l’amara consolazione di un ultimo saluto. L’auto su cui viaggiava Antonino Scopelliti finì oltre la recinzione e terminò la sua corsa poco più giù. La radio accesa, una musicassetta che continuava a girare, mentre Nino, con ancora la salsedine addosso, rimaneva chino sul volante. Non fu un incidente, come qualcuno sospettò nei primi istanti. Il giudice Scopelliti – il sostituto procuratore generale della Cassazione – fu ucciso da qualcuno che gli sparò con chirurgica precisione. Un lavoro da professionisti. Un lavoro che solo i sicari di mafia sanno eseguire con tale freddezza.

 

La mente di Rosanna, da quella maledetta sera, è tormentata da una semplice domanda. Non è un’ossessione, probabilmente un intimo e severo esame con sé stessa: “Cosa posso fare per mio padre?”. È cresciuta, Rosanna, ché di anni ne sono passati 28, ed oggi è una donna dal carattere forte e deciso. Di quelli forgiati da un amore familiare incondizionato, ma anche dalle lacrime. Ed è proprio da quell’inconsolabile dolore, da quella frattura che mai riuscirà a sanarsi sino in fondo, che una ragazza, oggi madre, tira fuori l’energia per continuare a combattere una battaglia che non può essere soltanto sua. La morte del giudice Antonino Scopelliti non è un “fatto familiare”, ma deve essere un delitto che interroga ogni giorno le nostre coscienze e ci ricorda che non è vero per nulla che, in Calabria, nessuno uccideva i giudici. Anche i giudici calabresi hanno versato il loro tributo di sangue e Nino Scopelliti ne è stato forse il crocevia più complesso. Nella giornata in cui si ricorda quel tragico 9 agosto 1991, abbiamo voluto incontrare Rosanna per parlare non tanto del passato, quanto del futuro.

 

Ventotto anni dopo ci si ritrova a Piale a parlare ancora di una verità da scrivere, sebbene di passi in avanti, di recente, ne siano stati fatti

«La stiamo inseguendo da 28 anni la verità. Ci sono battute d’arresto che, ogni tanto, ci fanno vacillare come familiari e come persone che hanno amato Antonino Scopelliti. Ma sono certa che si debba ritrovare la voglia di credere nella Giustizia ed in uno Stato fatto di persone che si riconoscano nei valori della nostra Patria. Uno Stato che deve poter restituire quel minimo indispensabile che è la verità sulla morte di mio padre. Del resto, occorre fornire pure ai cittadini strumenti per far aumentare il desiderio di denunciare, di impegnarsi nel dire “no” alle mafie ed avere dall’altra parte, però, delle istituzioni in grado di garantire il rispetto dei diritti».

 

Lei, nonostante le fisiologiche battute d’arresto, continua ad avere fiducia?

Certamente. Nutro molta fiducia nella magistratura in generale e nella Procura della Repubblica di Reggio Calabria in particolare che lavora in sinergia con altre Procure.

 

Come ha accolto la notizia della perizia sull’arma che gli inquirenti ritengono sia quella che ha sparato quel tragico giorno?

Si spera sempre in notizie positive, ma in parte lo sapevamo. Si tratta di un’arma di tanti anni fa e ci possono essere dei meccanismi non funzionanti alla perfezione. Tuttavia, vorrei davvero sollecitare i magistrati, con la speranza che vi siano piste diverse da quelle del fucile. Lo spero da figlia, ma soprattutto da italiana.

 

Chi era il giudice Antonino Scopelliti?

Mio padre era un magistrato molto riservato. Pensi che si contano sulle dita di una mano le sue apparizioni in televisione. Ricordo che, una delle poche partecipazioni, fu a “Telefono Giallo”. Fu mandato lì a difendere una Cassazione che, sinceramente, all’epoca non aveva dato una meravigliosa immagine di sé. Eppure inviarono lui, perché lo ritennero il magistrato più competente, che aveva una coscienza tanto limpida e pulita da poter dire “ce l’abbiamo messa tutta, ma la burocrazia ci ha fermati”.

 

Può, quella riservatezza di suo padre, aver inciso nella concezione dell’opinione pubblica, che ha un po’ dimenticato il sacrificio estremo del giudice Scopelliti rispetto ad altri divenuti sicuramente più eclatanti nel sentire comune?

«Guardi, occorre dirlo con franchezza: accanto al delitto Scopelliti c’è una verità che va totalmente riscritta. Ma, per farlo, bisognerebbe avere il coraggio di riscrivere totalmente la storia dell’antimafia dagli anni ’90 ad oggi. Qui si parla di connivenze e trasversalità diverse da quelle che abbiamo sempre immaginato. Mi rendo conto che fare un esercizio del genere sia complicato, perché mutare certe convinzioni cristallizzate è difficile. Non farlo, però, non rende un buon servizio a questo Paese».

 

Leggiamo della rabbia nelle sue parole

«Sa, ci sono persone che ogni tanto, al mattino, si alzano e pensano di poterla scrivere loro la verità sulla morte del giudice Scopelliti».

 

In che senso?

«Prendendo stralci di giornali ed andando a minare uno dei rapporti più belli che io ricordi, come quello che mio padre aveva con Giovanni Falcone. Pochi lo sanno, ma lui e Falcone hanno lavorato insieme, anche se non vi è stata alcuna pubblicità di questo. Eppure, io sono convinta che proprio questo lavoro comune possa avere inciso sulla morte di mio padre. Ecco perché va scritta la verità, ma che sia vera. E ciò lo possono fare solo i magistrati attraverso una verità giudiziaria».

 

Lei cita Falcone ed il suo lavoro ed a noi vengono in mente i collaboratori di giustizia, con i quali proprio il magistrato palermitano andava cauto. Come si spiega che oggi, diversi pentiti si alzino e dicano qualcosa sull’omicidio di suo padre? Così, a distanza di molti anni?

«Credo che rientri sempre nella “mediaticità” di cui parlavamo prima. Ma non dimentichiamo che qualche pentito ha riferito parole trancianti: “Scopelliti? A me certe cose non sono state chieste”. Ecco, io ritengo che se si fosse lavorato in sinergia, sin dal primo momento, così come lo stesso Falcone indicò in un articolo pubblicato sulla Stampa, le cose sarebbero andate diversamente».

 

Perché? Cosa disse Falcone?

«Disse che l’omicidio di mio padre era un delitto di mafia e non passionale come qualcuno lo volle derubricare immediatamente a Reggio Calabria. Sa qual è il paradosso? Che io mi trovo a vedere, oggi, mio padre riconosciuto come vittima del dovere e non come vittima di mafia. E questo pesa a livello personale e come storia. Mio padre ha diritto di essere inserito fra quelle persone con cui ha lavorato, con la stessa dignità delle altre vittime in un contesto che ha causato la morte non solo sua, ma anche di altri servitori dello Stato. Il problema è che noi oggi arriviamo a certe conclusioni, cui i mafiosi erano giunti già negli anni ’80-’90. Ed è un problema serio su cui dovremmo iniziare ad interrogarci prima o poi».

 

Arriverà il giorno in cui si potrà scrivere una parola definitiva su quel periodo?

«Io penso di sì. Anzi, ne sono sicura. Sarà scritta la parola “fine” sul caso Scopelliti. E ciò sarà possibile grazie al coraggio di chi ha saputo contestualizzare quel fatto in un ragionamento molto più ampio. Ma per arrivarci serve fare qualcosa di più».

 

Cosa servirebbe secondo lei?

«Scardinare questo sistema che ci espone anche a dicerie, a ricostruzioni fantasiose, ad oltraggi come quelli che la figura di mio padre ha dovuto subire con articoli in cui viene sminuito il suo lavoro ed il ruolo che ha avuto. Ecco cosa serve: andare oltre le verità preconfezionate. Ma ciò costa tanto in termini di volontà e tempo. Tuttavia, ripongo la mia fiducia nel lavoro degli inquirenti. Nessuno pensi di poter interrompere la stima incondizionata ed il rapporto privilegiato che abbiamo con le Procure».

 

C’è qualcosa che continua a domandarsi ed alla quale non riesce a dare una risposta?

«Sì, tante volte mi sono chiesta e mi chiedo se io stia facendo abbastanza. Se il lavoro della fondazione Scopelliti sia sufficiente, così come l’esporsi in prima persona. E le confesso che ho un solo rammarico e riguarda la politica».

 

Di cosa si tratta?

«Quando ero parlamentare tutti mi cercavano per venire a questa commemorazione. Dai ministri ai sottosegretari, ero subissata di richieste. Da quando non sono più parlamentare vedo tanta gente, ma, tranne qualche parlamentare del territorio – che ringrazio – non vedo nessun esponente del Governo. Ora, capisco la situazione del momento, particolarmente delicata, ma a queste commemorazioni non dovremmo esserci solo noi. I rappresentanti del Governo devono essere presenti per testimoniare un interesse tangibile delle istituzioni. E non mi sembra corretto che, oggi che non sono più parlamentare, quell’universo non debba muoversi più attorno ad eventi come questo».

 

Vediamo molta determinazione nei suoi occhi, prima che nelle sue parole. Eppure non è facile dopo così tanto tempo.

«Sì, è vero. Ma esiste un motivo: ho una bambina piccola. Pochi giorni fa mi ha chiesto perché nonno Nino non la può portare al mare. Io le ho detto che, in fondo, nonno Nino non portava neppure me al mare per questioni di sicurezza. Ma vorrei che arrivasse un giorno in cui poterla guardare negli occhi e raccontarle chi sono le persone che hanno ucciso suo nonno. È questo che chiedo ai magistrati: trovateli. Non lo farete per me, per i bambini come mia figlia. Perché noi vedremo poco dei risultati del lavoro che state facendo. Ma i nostri figli sì. Loro dovranno avere il diritto di vederli quei risultati e soprattutto dovranno avere delle risposte. Le stesse che spero, un giorno, di poter dare alla mia bambina».