I siciliani si erano impegnati a riportare la pace tra i clan Reggini impegnati in una guerra di mafia che aveva lasciato sul capo 700 morti; e le famiglie calabresi avrebbero accettato di ammazzare il giudice che non si piegava alle richieste della mafia. Il regista di questo patto criminale sarebbe stato Matteo Messina Denaro, il superboss di Cosa nostra finito in carcere questa mattina dopo 30 anni di latitanza. Con la cattura del boss di Castelvetrano si ritorna a parlare anche di un’inchiesta aperta nel 2019 dalla Dda di Reggio Calabria, che mirava a fare luce sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso in un agguato il 9 agosto 1991. Un’inchiesta che, però, dopo quasi 4 anni non ha fatto nessuno scatto in avanti.

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La svolta nelle indagini, che in un primo tempo aveva coinvolto anche Totò Riina e Bernardo Provenzano poi assolti, era avvenuta con il ritrovamento del fucile che sarebbe stato usato nell’agguato contro il magistrato di Cassazione. A fare ritrovare quell’arma era stato il pentito catanese Maurizio Avola, colui che di fatto aveva permesso di riaprire le indagini. Il collaboratore parla di un summit che si sarebbe tenuto nella primavera del 1991 a Trapani, con protagonista proprio Matteo Messina Denaro, all’epoca non ancora latitante. Lì ci sarebbe stato il patto firmato da Cosa nostra e ‘ndrangheta per eliminare il procuratore generale. Un uomo che aveva opposto un secco no a possibili avvicinamenti per aggiustare il processo.

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Ed allora nella sera d’estate del 1991 a Piale vi sarebbe stato un commando composto sia da calabresi che da siciliani. Un gruppo di fuoco la cui arma principale sarebbe stata proprio il fucile calibro 12 ritrovato nelle campagne siciliane.

Nel 2019 vennero iscritte 18 le persone sul fascicolo degli indagati. Si tratta dei siciliani Matteo Messina Denaro, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. E 10 calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio e Giuseppe De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.

A capo dei nomi di Cosa nostra c’è appunto Matteo Messina Denaro, per quanto della ‘ndrangheta spicca il nome di Giuseppe Piromalli, a testimonianza di quel presunto ruolo rilevante avuto dalla cosca di Gioia Tauro, nei rapporti con Cosa nostra. Ma non mancano personaggi come Giorgio De Stefano e Gino Molinetti detto "la belva", ritenuto dai magistrati uno dei killer più spietati della 'ndrangheta.

All’epoca dell’apertura dell’inchiesta tutti, tranne ovviamente Messina Denaro, avevano ricevuto un avviso di garanzia finalizzato ad un incarico tecnico di rilievo: l’esame del fucile calibro 12 e di 50 cartucce Fiocchi ritrovate dalla polizia, a seguito delle dichiarazioni di Avola.

Sull’esito di quelle analisi tecniche non si hanno notizie, forse perché l’indagine al momento si trova su un binario morto.