Un vespaio di polemiche scoppiate intorno a una tragedia del corpo dell’anima. Una piccola morte. Quella della ragazza di 15 anni di Melito, brutalizzata per due anni da un branco di ragazzi di età inclusa tra meno di 18 e i 30 anni. Un calvario iniziato quando ne aveva solo 13, cristallizzato in una memoria stilata, con l’aiuto degli psicologi del Tribunale di Reggio.

 

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Una storia di violenze fisiche e vessazioni psicologiche, all’interno della quale c’è posto anche per la sporca mano della ‘ndrangheta.

 

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Il capo branco, Giovanni Iamonte, figlio del boss Remingo, la ricevette la prima volta come regalo di compleanno. In due anni, il corpo diventato oggetto della giovane vittima sacrificale, passò di mano in mano. Da Antonio Verduci a Lorenzo Tripodi, da Michele Nucera a Davide Benedetto alle mani di Pasquale Principato. Poi anche un minore. E “altri ancora”.

 

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A casa, ad attenderla, una madre rassegnata e un padre che ha trovato il coraggio di denunciare. E che ora, non si capacita di come il paese abbia potuto voltare le spalle alla sua piccola trasformata in carne da macello da un branco di semi-bestie senza scrupoli e senza dignità. Poi succede qualcosa. Si organizza una marcia di solidarietà per la ragazza. Ma il paese non risponde. Pochi i partecipanti, sparute le fiaccole fra le vie di Melito. Ma soprattutto, fra la gente, si raccolgono malumori e frasi dette a mezza voce. "Se l’è cercata". "Era una che non sapeva stare al suo posto". Perché è più facile ignorare una vittima che riconoscere un mostro.

 

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