«Confermo e ribadisco la volontà di collaborare con l’autorità giudiziaria e prendo atto degli obblighi e dei doveri che tale scelta comporterà». Era il 23 marzo scorso quando Mario Chindemi, neo collaboratore di giustizia, al carcere di Rebibbia stende il suo terzo verbale con i pm reggini Walter Ignazitto e Diego Capece Minutulo, titolari di alcune inchieste delicate che riguardano fatti di sangue avvenuti alla periferia nord di Reggio Calabria. L’Antimafia dello Stretto ieri ha depositato l’atto, nell’ambito del processo, a carico di Rocco Marconese, un giovane arrestato per armi. Ed infatti, in materia di armi che sono state rese note le prime dichiarazioni del “pentito” da cui, però si evince, nonostante la serie di omissis che già nel dicembre scorso, precisamente l’undici e il quattordici, ha incontrato i magistrati della Dda, retta da Giovanni Bombardieri, con cui ha iniziato la collaborazione. Chindemi venne fermato dalla Squadra Mobile della Questura, il 4 luglio scorso, nell’ambito dell’operazione “De Bello Gallico” in quanto accusato di essere uno dei capi della ‘ndrina di Gallico, quartiere alla periferia nord della città, teatro nell’ultimo decennio di una vera e propria faida. Una faida che registrerà il 16 marzo del 2018 l’omicidio di Fortunata Fortugno,  amante del boss Demetrio Logiudice, vero obiettivo dei killer, che rimase ferito nell’agguato. Per questo agguato l’Antimafia ritiene responsabile il nipote del neocollaboratore, ossia Paolo Chindemi a cui assassinarono il padre Pasquale, sempre a Gallico, la sera del 15 febbraio dell’anno scorso.

Riserbo sulla collaborazione con gli inquirenti

Al momento vige il massimo riserbo sulla sua collaborazione con gli inquirenti, ma la portata delle sue dichiarazioni potrebbe rappresentare una chiave di svolta nella serie di inchieste, portate avanti sui delitti perpetrati in tutti i quartieri della zona nord della città, dove le ‘ndrine sono in lotta per la conquista del predominio mafioso.  Una lunga scia di sangue iniziata con l’assassinio di Domenico Chirico, braccio operativo mammasantissima Pasquale Condello, alias “il supremo”, e cognato del pentito Paolo Iannò, avvenuto il 20 settembre 2010 ad opera di due killer, e poi proseguita con la morte di Giuseppe Canale che venne a sua volta assassinato per vendetta a Gallico il 12 agosto del 2011. Per il delitto di Canale i Carabinieri arrestarono una serie di persone, oggi tutte a processo, ma ci sono ancora tanti fatti di sangue su cui l’Antimafia sta indagando, e soprattutto tanti gli atti intimidatori registratesi nella zona su cui certamente Chindemi potrà fornire risposte alla Dda. Come l’omicidio del fratello Pasquale, e anche degli scenari criminali che hanno generato l’assassinio del commerciante Francesco Catalano, freddato il 14 febbraio non appena giunto sotto casa, ubicata all’interno del condominio “il Glicine”. Catalano in passato era ritenuto vicino al clan Condello di Archi, nonché fiancheggiatore del killer, poi “pentito”, Paolo Iannò. Omicidi, estorsioni e gli assetti delle ‘ndrine: sono tutte conoscenze che Chindemi adesso rivelerà ai magistrati antimafia reggini.  Dal capo di imputazione mosso a suo carico, nell’ambito dell’inchiesta “De Bello Gallico”  è  accusato di essere «il promotore, dirigente e organizzatore, svolgendo compiti direttivi ed organizzativi, dando indicazioni operativi agli altri associati, individuando le imprese e le attività commerciali da sottoporre ad estorsione e ricevendo i relativi proventi, occupandosi altresì della custodia delle armi e della perpetrazione dei reati contro il patrimonio, dirimendo i conflitti interni alla cosca e sanzionando gli affiliati in caso di violazione delle norme che governano il sodalizio».

«Gli sgarri si pagano»

E al momento “solo” per armi la Dda ha reso note le sue dichiarazioni. Fucili, munizioni e cartucce che la “sua” ‘ndrina deteneva. Nel processo a carico di Rocco Marconese lo stesso Chindemi ammette di aver riconosciuto, da un articolo di giornale che gli aveva fatto leggere il fratello Pasquale, l’arsenale sequestrato dalle forze dell’ordine. «Si trattava dell’articolo relativo dell’arresto di Rocco Marconese.  Ci siamo resi conto- ha affermato il neo collaboratore- che i Carabinieri avevano trovato le nostre armi che erano contenute nello zaino. Pasquale aveva anche riconosciuto in quella fotografia alcune armi che ci aveva consegnato “Omissis”. Ricordo infatti che “Omissis”, ci aveva portato due pistole e due fucili, ma non sono in grado di dire quali sono tra quelle ritrovate. Le due mitragliette ritrovate invece, erano state messe a disposizione nostra da “Omissis”. La conferma- continua Chindemi- che quelle ritrovate dai Carabinieri fossero proprio le nostre armi l’abbiamo avuta che quando siamo andati sul posto e abbiamo accertato che dietro le cassette non c’era più il nostro zaino. Non avendole ritrovate ci siamo resi conto che quelle del giornale erano le nostre armi».

Chi ha rubato la “santabarbara”?

Chindemi non ricorda se tutte le armi trovate in possesso, secondo l’accusa, dall’imputato siano le “loro”, ma afferma di ricordare che «mio fratello Pasquale era sicuro del fatto che alcune delle armi trovate a  Rocco Marconese fossero le nostre, sia perché le ho riconosciute dal giornale e sia perché non le abbiamo più trovate nel poste dove  Paolo e Santino (Pellegrino, suoi nipoti ndr) le avevano nascoste. Secondo noi qualcuno ci aveva voluto fare uno sgarro. Ciò- prosegue- anche in ragione del fatto che solo alcune delle armi contenute nello zaino erano state ritrovate da Marconese, mentre altre erano sparite e non abbiamo più recuperate». Chi ha rubato la “santabarbara”? Chiunque sia stato a farlo ha oltrepassato un limite. Perchè loro non erano sconosciuti, ma in quel momento storico, “contavano” in tutta la periferia nord della città. «Ritengo che il prelevare le armi da un terreno che notoriamente è in uso ad una persona legata ad una cosca- ha sottolineato Chindemi- vada interpretata come uno sgarro ovvero un gesto contrario alle regole del rispetto (…) Mio fratello Pasquale non credeva al fatto che Maroconese, con il quale vi era sempre stato un buon rapporto, potesse averci fatto un simile sgarro. Al contrario Santino Pellegrino era convinto che fosse stato lui e per questo mi diceva continuamente che si saremmo dovuti vendicare. Così un paio di giorni dopo l’arresto io e Santino Pellegrino ci siamo recati sul terreno di Marconese e abbiamo sparato ai suoi maiali, uccidendone due. Abbiamo fatto ciò senza consultarci prima con mio fratello Pasquale, che in quei giorni si trovava a Torino. Quando, al suo rientro, lo abbiamo informato dell’accaduto Pasquale mi ha rimproverato, dicendomi che secondo lui non era stato Marconese a prendere le armi»

Conoscenze “importanti”

Da queste poche pagine si evince con assoluta chiarezza che il neo “pentito” conosce molti volti e nomi, seppur omissati dall’autorità giudiziaria, di elementi di spicco, e non, della ‘ndrine di Reggio nord. Come quando riferisce che «Marconese, (il quale non è imputato per dinamiche mafiose ndr), noi sapevamo che era con la cosca di Archi, in particolare con Gino Molinetti. Mio fratello Pasquale aveva provato a convincere Marconese a far parte del nostro gruppo. Egli tuttavia, gli ha sempre detto che aveva già uno stabile legame con Gino Molinetti e che non voleva reciderlo. Tuttavia- riferisce sempre Chindemi- si era messo a disposizione di Pasquale per qualche necessità senza che ciò comportasse un definitivo passaggio nel nostro gruppo. Pasquale mi disse che Marconese aveva anche aiutato Molinetti a nascondersi per qualche giorno durante la sua latitanza». Molinetti non è una “personaggio” qualunque. Soprannominato “la belva” il suo nome è storicamente legato alle cosche di Archi e gli inquirenti lo ritengono uno dei killer della ‘ndrina. Nelle settimane scorse poi la Dda dello Stretto ha reso noto che è indagato, insieme a boss e gregari di primo piano della ‘ndrangheta calabrese e della mafia siciliana, nell’inchiesta che mira a fare luce sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991 a "Piale", frazione  di Villa San Giovanni.