Per la Suprema Corte la telecamera della villetta del 55enne di Limbadi non è stata manomessa e non vi è prova che l’impianto di videosorveglianza riprendesse il cancello di accesso dell'azienda agricola della vittima. Le incongruenze sugli orari e il giallo del soggetto in fuga
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Sono state depositate dalla prima sezione penale della Cassazione le motivazioni del verdetto con il quale il 28 gennaio scorso è stato dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Catanzaro avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame (datata 1 agosto 2019) che aveva disposto l’immediata scarcerazione di Salvatore Ascone, 55 anni, di Limbadi, difeso dagli avvocati Francesco Sabatino e Salvatore Staiano, per difetto di gravità indiziaria. Ascone era stato tratto in arresto su richiesta della Procura di Vibo Valentia in relazione alla scomparsa e all’omicidio di Maria Chindamo, ma nei mesi scorsi il fascicolo era stato trasmesso per competenza alla Procura distrettuale antimafia di Catanzaro che aveva impugnato il provvedimento di scarcerazione.
Maria Chindamo la mattina del 6 maggio 2016 ha raggiunto il cancello di ingresso della sua azienda agricola sita in una contrada Carini di località Montalto di Limbadi, non venendo più ritrovata. Sul luogo è stata invece rinvenuta l’autovettura “con il motore acceso e l’impianto stereo a tutto volume, a conferma – si legge nella sentenza della Cassazione – dell’avvenuta consumazione di un fatto violento, senza che il sistema di videosorveglianza apposto sui terreni frontistanti, di proprietà di Salvatore Ascone, riprendesse alcunché”.
La ricostruzione degli eventi
La Suprema Corte di Cassazione spiega quindi che “Maria Chindamo giunse nella sua azienda agricola alle ore 7.10; alle ore 7,15 già non rispose ad una chiamata al suo cellulare, sicché è logico ritenere che l'aggressione in suo danno venne consumata tra le ore 7,10 e le ore 7,15. Sul posto sono state rinvenute tracce di sangue sulla vettura e su un muretto a secco nonché alcuni capelli sul paraurti lato guida”.
L’accusa per Salvatore Ascone era quella di aver manomesso, unitamente al figlio minore Rocco e al collaboratore Nicolae Laurentiu Gheorghe, il sistema di videosorveglianza e di aver modificato la visuale della telecamera cd. brandeggiante che invece era inizialmente posta in modo tale da raffigurare la proprietà della vittima. L’indagato avrebbe in tal modo – secondo l’accusa – fornito un contributo alla commissione dell'omicidio, “agevolando gli autori materiali che poterono operare sapendo di agire indisturbati e con la sicurezza di non essere ripresi e dunque individuati”.
Gli accertamenti investigativi
Il Tribunale del Riesame di Catanzaro ha premesso che nel corso dell'attività investigativa si è accertato, tra l'altro: che il sistema di videosorveglianza era preimpostato per registrare dalle ore 20,00 alle ore 8,00 di ogni giorno; che il 5 maggio 2016 il sistema interruppe la registrazione alle ore 22,37 per interruzione dell'alimentazione dell'hard disk interno, che inibì la funzione di registrazione; che dalle riprese delle telecamere nella fascia oraria dalle 20,00 alle 22,37 non si ricava alcunché di significativo, con la conseguenza che chi manomise l'hard disk dell'impianto entrò nella casa prima delle 20,00, evitando di essere ripreso dalle telecamere, e uscì dopo la disattivazione dell'hard disk; che, come si trae dalla visualizzazione delle telecamere, il figlio di Salvatore Ascone, Rocco, alle ore 19,31 si diresse verso il capannone agricolo, scomparendo dalla visuale; questi poi fece rientro a casa soltanto alle ore 22,44.
Il soggetto che si diede alla fuga
Secondo quanto riporta la sentenza della Cassazione attingendo alle motivazioni del Tribunale del Riesame, la mattina della scomparsa di Maria Chindamo “fu visto aggirarsi nei pressi dell'autovettura della vittima un soggetto che poi si dette alla fuga ed è allora plausibile ritenere che si allontanò utilizzando l'ingresso posteriore del capannone della proprietà Ascone”. Il sistema di allarme dell'abitazione di Ascone, inoltre, “la mattina della scomparsa di Maria Chindamo non segnalò alcun ingresso abusivo, rendendo quindi “molto plausibile ritenere che l'accesso all'abitazione fu opera soltanto di quanti possedevano la chiave e conoscevano altresì l'ingresso a monte”.
Le ragioni del Riesame per scarcerare Ascone
Il Tribunale del Riesame ha poi spiegato che in data 15 giugno 2016 era stata prospettata l’ipotesi di un’eventuale manomissione del sistema di videosorveglianza in modo da non far riprendere la scena dell’aggressione e poi, con decreto del 9 gennaio 2017, si era proceduto all'acquisizione, tra gli altri, dei tabulati telefonici relativi alle utenze nella disponibilità di Salvatore Ascone. “La ricostruzione degli spostamenti di Rocco Ascone, individuato come materiale esecutore della manomissione degli impianti – hanno però sottolineato i giudici del Riesame – non persuade. L’orario riportato dalla telecamera (22.37) non corrisponde a quello reale, in quanto vi è uno scostamento di 31 minuti, coincidendo quello reale con le ore 23,08,40. Non è quindi sostenibile la compatibilità con l’orario (22.44) in cui Rocco Ascone fece rientro a casa a bordo dell'autovettura, tenuto altresì conto del tempo occorrente per coprire il tragitto capannone-abitazione”
Nessuna manomissione all'impianto
Sempre il Tribunale del Riesame ha poi sottolineato che “la segnalazione di errore, riscontrato la mattina del 6 maggio 2016 sull'impianto, non conduce ad attribuire la mancata registrazione a interventi di manomissione. È stata accertata la presenza all'interno della memoria dell'hard disk di 26 errori di lettura del dispositivo e quindi non può escludersi – hanno sempre sostenuto i giudici del Riesame – che la mancata registrazione nel periodo considerato possa essere stata causata proprio dagli errori presenti nell'hard disk che non era stato sostituito alcuni giorni prima, come invece effettuato con il Dvr danneggiato. Dal 21 aprile 2016 sono state riscontrate diverse interruzioni del normale periodo di registrazione, e ciò senza che sia ipotizzabile un intervento umano”.
La telecamera nascosta e il temporale
Di pari incertezza indiziaria, secondo il Riesame, è infine il riferimento fatto dal pubblico ministero alla “telecamera brandeggiabile di campagna perché non v'è certezza che, prima dello spostamento, riprendesse la porzione di terreno vicino al cancello di accesso alla proprietà di Maria Chindamo, fatto anzi che parrebbe da escludersi; e poi perché la sera del 5 maggio quella zona fu interessata da un violento temporale a cui, in ipotesi, potrebbe essere riferibile il malfunzionamento - spostamento dell'angolo visuale - della telecamera”.
Le ragioni della Cassazione
Tali argomentazioni del Tribunale del Riesame sono state ritenute corrette dalla Cassazione che ha ritenuto inammissibile il ricorso della Procura di Catanzaro. Questo perché la Procura di Catanzaro, ad avviso della Suprema Corte, “non ha illustrato quale sia il significato indiziario attribuibile alle dichiarazioni rese da Salvatore Ascone il 15 giugno 2016 e il 24 maggio 2017 e dichiarati dal Tdl inutilizzabili, né quale peso e ruolo avrebbero avuto nel contesto giustificativo delineato dalla motivazione dell'ordinanza impugnata.
Quanto poi all’ascrivibilità ad un’azione umana dello spostamento della telecamera nella notte tra il 5 e il 6 maggio 2016, così come sostenuto dalla Procura, secondo la Cassazione “a prescindere dal fatto dell’ipotizzato spostamento, non v'è prova che in precedenza la telecamera riprendesse la porzione di terreno vicino al cancello di accesso all'azienda della vittima. È di immediata apprensione la centralità del fatto che, come indicato dall'ordinanza impugnata, non essendo provato, non può costituire – sottolinea la Suprema Corte – la premessa per assegnare rilevanza indiziaria allo spostamento, per intervento umano, della telecamera”.
L’orario di interruzione dell'impianto
Per la Cassazione, infine, vi è l'assoluta incompatibilità dell'effettivo dato orario di interruzione dell'impianto alle ore 23,08,40, ben diverso quindi dalle ore 22.37 riportate dalla telecamera - con l'assunto accusatorio, secondo cui Rocco Ascone - esecutore materiale del mandato paterno -, stando agli elementi desunti dalle telecamere apposte nell'abitazione familiare, si allontanò alle ore 19,31 per recarsi al capannone e manomettere l’impianto di videosorveglianza, e poi fece rientro alle ore 22,44, come da registrazione acquisita in atti. “È ovvio – conclude la Cassazione – che tale ultimo dato orario non consente di conferire plausibilità e riconoscere adeguato riscontro indiziario all'ipotesi di accusa”.