«Niente di più dell’onda provocata da una nave che lascia il porto». Ma quando quell’onda viene classificata come “tsunami” e si porta appresso un allarme arancione emesso dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) dopo un potente terremoto sottomarino, allora è tutta un’altra storia che richiama alla mente le paure ataviche di chi vive affacciato sul Mediterraneo.

 

Le cause del mini-tsunami di Crotone

Secondo Francesco Mele, ricercatore dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), è stata la rottura di una faglia lunga tra i 15 e i 20 chilometri la causa del terremoto di magnitudo 6,8 registrato la notte scorsa in Grecia, nei pressi di Zacinto. La frattura ha sollevato il fondo marino e la colonna d’acqua sovrastante, provocando un piccolo maremoto che si è propagato per tutto il Mediterraneo raggiungendo le coste di Calabria, Sicilia e Puglia. Dalla sala operativa del Centro allerta tsunami italiano, operativo dal 2017, è partita la segnalazione.
«Abbiamo subito lanciato un’allerta tsunami di livello “rosso”, il più alto, per le coste greche, e “arancione’”, quello intermedio, per le coste italiane - ha dichiarato Mele all’Ansa -. La placca che occupa tutto il mar Ionio si è spostata rispetto a quelle che comprendono la penisola balcanica e la Grecia. Il mare ha risposto all’anomalia tornando all’equilibrio con un’onda di tsunami, che in pochi minuti ha raggiunto le coste greche e in circa 45 minuti quelle italiane, in particolare calabresi, siciliane e pugliesi».
Secondo i dati rilevati dai sensori installati nei porti, lo tsunami ha fatto sollevare il livello del mare di 10 centimetri a sud di Crotone, di 3-4 centimetri lungo la costa di Catania, di 8 centimetri a Otranto e di 12 centimetri nelle coste greche.
«Si tratta di variazioni di ampiezza analoga a quelle generate da una nave che lascia il porto», ha concluso il ricercatore.
Uno tsunami piccolo piccolo, insomma, ma comunque potenzialmente pericoloso. Le onde, infatti, arrivano sulle coste a una velocità elevata, generando forti correnti, senza considerare che soprattutto in Puglia è stato osservato un aumento del livello del mare di circa mezzo metro in alcune località del Salento. A parte questi effetti limitati, in Calabria sono davvero poche le persone che si sono accorte di qualcosa.

 

Il maremoto del 1908

Ma gli tsunami, sebbene molto rari, rappresentano comunque un rischio reale per l’intero Mediterraneo e la storia più o meno recente è segnata da episodi di incredibile distruzione e morte. Due sono i principali fattori che possono essere causa di un maremoto distruttivo nello specchio d’acqua che separa l’Africa dal continente europeo: i terremoti e la frane, soprattutto quelle sottomarine.
Lo tsunami più recente è quello provocato dal terremoto del 1908 che rase al suolo le città di Messina e Reggio. Le onde che colpirono la costa calabrese raggiunsero anche i 13 metri d’altezza e uccisero migliaia di persone che per sfuggire ai crolli causati dal sisma si erano riversate sulle spiagge. La stessa cosa accadde sulla costa siciliana. Dopo la prima ondata, le acque si ritirarono, ma dopo pochi minuti almeno altre tre grandi ondate si abbatterono sul litorale trascinando ogni volta in mare aperto barche, macerie e persone. Le località calabresi più duramente colpite furono Pellaro, Lazzaro e Gallico.

 

Il geologo: «Mediterraneo a rischio tsunami»

«Nel mar Mediterraneo è possibile che si generino tsunami che possono arrivare anche ad essere devastanti - conferma all’Agi il geologo Enzo Boschi -. Ce lo dice la storia geologica del nostro mare. La placca euroasiatica, quella africana e quella anatolica si scontrano proprio sotto i fondali del mar Jonio e da questo scontro nascono terremoti e vulcani che possono generare tsunami. Fu proprio l’eruzione di un vulcano, quello di Santorini, in Grecia, nel Mar Egeo, uno dei tanti che si trovano nel Mediterraneo, anche vicino alle coste italiane, che ha generato forse l’evento più distruttivo che si sia mai verificato nel mondo e che forse ha provocato la fine della civiltà Minoica».
Fu proprio Boschi, alcuni anni fa, a raccogliere riscontri scientifici incontrovertibili su quello che ormai è considerato come il primo tsunami del Mediterraneo di cui si abbia notizia. Accadde in pieno Neolitico, circa 8mila anni fa, e fu causato molto probabilmente da una gigantesca frana sul fronte orientale dell’Etna che fece precipitare in mare 35 chilometri cubici di terra e rocce, che innescarono onde di maremoto che raggiunsero i 40 metri di altezza. Le simulazioni al computer hanno dimostrato che nel giro di pochi minuti le onde si sono prima abbattute violentissime sulle coste siciliane e poi, non riuscendo a penetrare nel Tirreno a causa dello Stretto di Messina, raggiunsero in un quarto d’ora le coste ioniche di Calabria e Puglia.
Nel dicembre del 2002, durante una eruzione dello Stromboli, una frana si staccò dalla Sciara del Fuoco e finì in mare, provocando un’onda anomala che colpì con violenza il villaggio dell’isola e proseguì poi la sua corsa in maniera più attenuata verso le coste siciliane e calabresi.
Ad animare l’incubo di un evento disastroso è anche il Marsili, il vulcano sottomarino alto 3mila metri, la cui vetta è a 450 metri di profondità nel cuore del Tirreno, equidistante da Sicilia e Calabria di circa 150 chilometri. Il collasso di una delle sue pareti causerebbe un maremoto dalle conseguenze potenzialmente devastanti.