Ci si inerpica lungo una strada sterrata che conduce al luogo della macabra sepoltura. Quei resti consunti dal tempo giacciono sotto pochi cumuli di terra. Il cadavere è avvolto in un cellophane, a pochi metri dalla carcassa di una vecchia Fiat 500. «Stava lì da anni, ma non da troppi anni», dice il procuratore Camillo Falvo. Al suo fianco il pm Filomena Aliberti. Lavorano in stretta sinergia con la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Significa che il caso potrebbe passare presto alla competenza del pool di Nicola Gratteri e che quei resti apparterrebbero ad una vittima della lupara bianca caduta nel regolamento di conti in seno alle cosche o comunque per una loro vendetta.

Il cadavere ad Ariola

Siamo ad Ariola, lussureggiante area boschiva nel territorio di Gerocarne, Preserre Vibonesi. Qui hanno scavato a colpo sicuro i poliziotti della Squadra mobile di Vibo Valentia, agli ordini del dirigente Fabio Di Lella e del vice Davide Lamanuzzi. Ci sono anche gli agenti della Scientifica ed il medico legale Katiuscia Bisogni. È una di quelle tombe remote scavate dai clan, che dagli anni ’90 ad oggi, hanno reso fantasmi troppi uomini, attirati in una trappola, torturati, uccisi e poi fatti sparire. Gente come i fratelli Antonio e Rocco Maiolo. Erano i boss della vicina Acquaro. Del primo, grazie alle rivelazioni di un collaboratore di giustizia, Enzo Taverniti, furono rinvenuti i resti diversi anni addietro. L’altro è rimasto un fantasma. Sparito come Raffaele Fatiga, E come Antonio Donato, Placido Scaramozzino, Giovanni Stambé e Salvatore Gallace. Mai ritrovati.

I morti per lupara bianca

Senza l’imbeccata di un pentito di mafia, uno che ha preso parte alla spedizione di morte, è difficile se non impossibile arrivarci. Sul punto il procuratore Falvo glissa. «Abbiamo delle risultanze investigative che ci hanno portato qui. Non posso aggiungere altro», spiega il magistrato che, prima di approdare alla Procura di Vibo Valentia, in veste di pm antimafia aveva investigato sulla devastante scia di sangue morte che ha bagnato anche questi luoghi. Tutti quei morti per lupara bianca sarebbero caduti nel contesto della guerra per il dominio delle Preserre innescata contro i Maiolo dal clan Loielo, poi decapitato nel 2002 - con gli omicidi dei boss Giuseppe e Vincenzo – da Bruno Emanuele, divenuto il nuovo padrone dell’Ariola assieme al vecchio padrino Antonio Altamura. Quei resti appartengono ad uno dei caduti di quel focolaio che si trascina da lustri?

Giallo sull’identità

«Sono resti relativamente più recenti - continua il procuratore Falvo -. Abbiamo elementi che ci inducono a ritenere che la vittima sia stata uccisa altrove, a colpi d’arma da fuoco, e seppellita qui. Potrebbe anche non essere una di quelle vittime». Gli inquirenti sembra abbiano le idee chiare,  ma il giallo sull’identità dei resti scheletrificati non viene svelato. Indumenti addosso: scarpe, pantaloni, un maglione, una giacca. Più recentemente, dalla vicina Serra San Bruno, scomparve Massimo Lampasi, 25 anni, correva il 24 settembre 2013. Ma non apparterrebbe a lui il corpo decomposto ritrovato in quella boscaglia, a dieci metri da quella stradina sterrata che arriva al cuore di Ariola. A Dinami, decisamente fuorimano rispetto a questo luogo, sparì invece Giuseppe Cavallaro, 77enne, insegnante elementare in pensione. Difficile sia lui.

Le recenti scomparse

Gli inquirenti, benché sia evidente abbiano un quadro chiaro, mantengono il riserbo. Probabilmente attendono il riscontro delle indagini medico-legali, iniziando dall’analisi genetica, per superare ogni dubbio sull’identità della vittima. Resta solo una certezza, al momento: nella provincia che ancora piange le vittime più recenti della lupara bianca mafiosa, ovvero Maria Chindamo e Francesco Vangeli, qualcosa continua a muoversi. Forse grazie ad un nuovo pentito?