«Una mission tesa a perseguire un modello di accoglienza integrata, ovvero non limitato al solo soddisfacimento dei bisogni primari, ma finalizzato all’inserimento sociale dell’ospite di ciascun progetto». È racchiusa in queste poche righe, messe nero su bianco dai giudici della Corte d’Appello di Reggio nelle motivazioni della sentenza sul processo Xenia, la storia di quello che fu il modello Riace, travolto da un’indagine della Procura di Locri e smantellato su disposizione dell’allora ministro dell’Interno (attualmente al dicastero delle infrastrutture e primo sostenitore del ponte sullo Stretto) Matteo Salvini. Poche righe che abbattono l’assunto, sostenuto in primo grado con una condanna a oltre un decennio di carcere emessa dal Tribunale di Locri, che il progetto portato avanti dall’ex sindaco del paese dell’accoglienza, si reggesse in piedi su una serie di truffe ai danni dello Stato e, soprattutto, ai danni dei migranti che ripopolarono il piccolo paese sulle colline dello Jonio reggino.

Una sentenza che restituisce l’onore perduto all’idea di accoglienza che, dal basso, era nata nel paese dei bronzi, ripopolato, negli anni, da frotte di migranti arrivati in Italia dalle zone più povere e in difficoltà del pianeta. Non stavano in piedi le ipotesi di truffa e di falso, né quelle legate al peculato. E, soprattutto, non stavano in piedi le accuse di associazione a delinquere con cui il tribunale di Locri aveva bollato le persone e le cooperative che quel modello avevano inventato e portato avanti, seguendo gli appelli della Prefettura reggina che un giorno sì e l’altro pure bussava a Riace per chiedere di accogliere un numero sempre maggiore di migranti. 

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«Condotte tra loro isolate – scrivono i giudici ricostruendo le accuse della Procura e smontando contestualmente l’ipotesi di associazione a delinquere – difficilmente collocabili in un disegno unitario e anzi spesso frutto di iniziative tra loro scarsamente coordinate, se non confliggenti. Le reazioni ispettive, le prove per testi e financo le stesse conversazioni intercettate delineano un disordine amministrativo e contabile, ma anche l’assenza di un governo complessivo delle azioni, nonché l’inesorabile procedere delle associazioni in ordine sparso». Nessuna associazione quindi, solo tanto disordine amministrativo (e contabile) dettato dalla scarsa preparazione tecnica e dalla necessità di non lasciare nessuno senza una sistemazione dignitosa.

Tra le prove considerate schiaccianti rispetto all’ipotesi di una regia organizzata da Lucano per lucrare sui compensi garantiti dal governo ai migranti, il primo giudice aveva assunto come «importanza determinante» il caso degli autofinanziamenti per sostenere le spese del festival internazionale dell’accoglienza e della legalità, annotando in sentenza che «quel versamento era espressione di un patto immanente di solidale contribuzione per gli scopi dell’organizzazione».

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Ma anche in questa occasione, il giudizio d’Appello cala una scure che cancella il primo giudizio: «Intanto non è chiaro in che termini il versamento di denaro, da parte delle singole associazioni per finanziare il festival possa essere stato funzionale al perseguimento della finalità del sodalizio – si legge nelle quasi 300 pagine di motivazioni – piuttosto, dall’analisi dei dialoghi traspare il rammarico di Lucano per le accuse lanciategli perché le iniziative si inscrivevano, a pieno titolo, nell’accoglienza integrata promossa da modello Riace, sia perché Lucano non si appropriò di nessuna somma di denaro». Una retromarcia senza se e senza ma rispetto al giudizio draconiano del tribunale locrese e che, in più occasioni, ristabilisce la verità su un modello di accoglienza nato dal basso e diventato manifesto internazionale di integrazione. Anche per il capitolo che riguarda i migranti che, alla fine del periodo dettato dai regolamenti, non erano stati allontanati dal paese: «Contrariamente a quanto ritenuto in sentenza – scrive ancora la corte d’Appello – non giova al tema d’accusa neppure l’analisi a proposito del trattamento dei migranti oltre i termini. L’espressione “dobbiamo stare uniti” in cui si coglie non certo l’interesse verso indebiti vantaggi patrimoniali, ma ad uno sguardo più alto, ovvero l’idea di accoglienza ostinatamente portata avanti da Lucano nel corso degli anni».

Il progetto Riace è naufragato ormai da anni sotto i colpi di una politica in perenne ricerca di consenso elettorale e di un teorema giudiziario collassato su se stesso in secondo grado, perché, annotano ancora i giudici «che Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati è circostanza emersa in un ulteriore dialogo in cui egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avevano cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell’accoglienza senza alcuna finalità predatoria».