È stato definito il Peppino Impastato calabrese Luigi Ioculano, ucciso dalla ‘ndrangheta la sera del 25 settembre di 20 anni fa. Un killer gli sparò e lo uccise mentre il medico di Gioia Tauro stava uscendo dal suo studio. Morì sul colpo e con lui la speranza di una città che aveva creduto di potere cambiare con l’impegno civico il corso della sua storia recente. Dopo 20 anni la città del porto annaspa nello stesso fango, con i clan che continuano dettare legge e a incutere paura, con il Comune in mano a una commissione antimafia. E allora il ricordo di Gigi Ioculano, il pensiero di quel sangue innocente che macchia l’androne di quel palazzone di via Roma, dovrebbe indurre a una riflessione seria, che vada al di là dell’esercizio retorico e stantio dell’antimafia da salotto.

 

Gigi Ioculano, usando un’espressione ormai abusata, era un uomo con la schiena dritta che, come moltissimi calabresi, aveva avuto amicizie con uomini della ‘ndrangheta. La sua forza è stata proprio quella di abbandonare quelle amicizie, proteggendo a costo della vita la sua libertà, il suo essere uomo libero. Impegnato in politica e strenuo animatore culturale attraverso l’associazione “Agorà”, Gigi Ioculano lascerà un vuoto incolmabile nella sua città e, soprattutto, nella sua famiglia.

 

È difficile dimenticare la voce tremante di sua moglie, Rosaria Muratori, dopo la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Palmi che condannava, il suo ex amico e boss, Pino Piromalli e Rocco Pasqualone all’ergastolo: «Non siamo capaci di parlare e rendere pubblici i nostri sentimenti; non so se per riservatezza o pudore». Quella sentenza fu annullata in appello e killer e mandante rimasero senza volto. Così il ricordo di Gigi Ioculano sbiadì per la maggior parte dei suoi concittadini e dei calabresi. Ecco perché oggi più che mai serve uno sforzo per preservare la memoria di un uomo libero, per ribadire che questa terra non ha bisogno di eroi, ma di punti di riferimento, di una bussola morale che indichi un percorso comune che porti Calabria fuori dal fango e dalla paura.

 

Francesco Altomonte