«La sequenza dei giorni di quest'anno è esattamente corrispondente. Per la domenica della festa del papà, e nel 1989 anche domenica delle Palme, ero scesa da Firenze dove studiavo Economia. Mio padre era venuto a prendermi, come sempre, alla stazione. E come sempre sorrideva mentre mi aspettava. Così i miei occhi continuano a ricordarlo. Non ho voluto vederlo dopo l’agguato. Mio padre è vivo, sorride e mi aspetta alla stazione. Per questo non riesco più a prendere un treno. Lo prendo solo se costretta». 

In questi giorni così significativi, in cui si concentrano la festa del papà, il giorno del 34esimo anniversario della sua uccisione e la giornata della Memoria e dell'impegno per le vittime innocenti delle mafie, Stefania Grasso ricorda quegli ultimi giorni di vita del padre Vincenzo. Era il marzo 1989. 

Una straordinaria normalità la sua. Marito e un padre amorevole, un imprenditore integro, un calabrese perbene e innamorato della sua terra che il 20 marzo 1989 fu raggiunto mortalmente da alcuni colpi di pistola Locri. A sparare fu una mano ancora oggi sconosciuta. Vincenzo Grasso aveva 51 anni.

«Mio padre non pagava e denunciava»

Marito di Angela e padre di Stefania e dei gemelli Fabio e Francesco, Vincenzo Grasso aveva ben avviato la sua concessionaria nel settore automobilistico e nautico, dopo l’esperienza da titolare di un’officina ad Ardore. Tra famiglia e lavoro si svolgeva la sua vita. Un'esistenza dedita ai figli, affinché potessero studiare, e alla moglie. Con il suo coraggio e la sua determinazione, Vincenzo era anche divenuto un ostacolo per 'ndrangheta perché non pagava, non cedeva alle richieste estorsive. Era un pericolo perché denunciava.

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