Antonio De Bernardo ha fatto da apripista, Andrea Mancuso, nell’udienza odierna, va invece in profondità avviando la scansione dei primi reati fine oggetto di contestazione correlati alla principale imputazione di associazione mafiosa. Prosegue così, nell’aula bunker di Lamezia Terme, la requisitoria del pool di Nicola Gratteri al maxiprocesso Rinascita Scott. Il pm Mancuso, in esordio, evidenzia il valore dell’articolata prolusione operata dal collega nella settimana precedente e sottolinea l’eccezionale capacità investigativa messa in luce dai carabinieri, in particolare dai militari del Ros, protagonisti di un’attività definita «imponente».

Prima che i collaboratori – incalza il pm – sono «gli imputati a parlare»: un chiaro riferimento, dunque, alla portata autoaccusatoria delle intercettazioni: ambientali, telefoniche, telematiche, che restituiscono da un lato l’unitarietà dell’organizzazione di ’ndrangheta oggetto delle indagini e poi trascinata a processo, ma anche l’adesione dei bersagli al sodalizio (esplicito il riferimento agli imputati Pasquale Gallone, già giudicato in abbreviato e condannato a trent’anni in primo grado, Gianfranco Ferrante, Giovanni Giamborino e Mario e Maurizio Artusa) e il ruolo preminente di Luigi Mancuso (la cui posizione è stata stralciata per confluire nel separato procedimento Petrolmafie).

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Il magistrato passa in rassegna tutta una serie di vicende nelle quali il ricorso al «Noi» diventa l’esplicita metafora dell’appartenenza ad un contesto associativo mafioso, ovvero «Limbadi», il principale locale ‘ndranghetista – parafrasando il pm De Bernardo – subordinato al Crimine retto sul carisma criminale di Luigi Mancuso. Fu la sua scarcerazione, avvenuta nel luglio del 2012, a decretare un radicale mutamento degli equilibri geomafiosi nella provincia di Vibo Valentia. Il pm Mancuso, sul punto, richiama la verità giudiziaria acclarata da altri procedimenti istruiti dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro – da Gringia a Costa pulita – quando le spaccature tra le grandi famiglie del Vibonese, una parte delle quali avverse al clan Mancuso, trascinò il territorio a faide ed omicidi. Era l’epoca in cui – sintetizza il titolare della pubblica accusa – fu Pantaleone Mancuso alias Scarpuni, oggi ergastolano, nipote di Luigi Mancuso, ad assumere un ruolo di primo piano nel governo delle dinamiche mafiose. La scarcerazione dello zio, figura il cui spessore veniva riconosciuto anche dai più grandi casati calabresi, avviò invece una fase di pacificazione. Fiaccati dalla faida coi Patania e dalle carcerazioni eccellenti i Piscopisani, anche i Bonavota di Sant’Onofrio rinunciarono a propositi bellicosi.

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La scarcerazione di Luigi Mancuso, che nell’estate del 2014 si diede ad una «latitanza volontaria» per sfuggire alle maglie della sorveglianza sociale, rappresentò dunque uno spartiacque fondamentale che introdusse dunque alla fase della “rinascita” del locale di Limbadi e, quindi, del Crimine di Vibo Valentia. Erano gli affiliati stessi, iniziando dagli uomini di maggiore fiducia, ad evidenziarne il peso. Emblematiche – tra le diverse captazioni, specie ambientali e telematiche, citate dal pm – le intercettazioni su Pasquale Gallone, braccio destro del superboss, nel suo casolare di Limbadi. In particolare, nel colloquio con Lorenzo Polimeno, emissario di Orazio De Stefano, fratello dello storico padrino Paolo, emergeva addirittura la particolare deferenza che anche il famigerato clan di Archi, nutrisse nei confronti di Mancuso, del cui blasone criminale gli attendenti beneficiavano, spendendone il nome o rivendicando l’appartenenza al suo gruppo.

Sempre nel casolare di Gallone, peraltro, il Ros registra una serie di progressivi che restituiscono plasticamente – spiega nella sua requisitoria il pm Andrea Mancuso – come e quanto il clan Mancuso, in Limbadi ed oltre, avesse il controllo dei cantieri, anche privati, delle forniture edilizie e dei subappalti. Le vicende assorbono le posizioni degli imprenditori Francesco Naso, Pantaleone e Salvatore Contartese, convocati per dirimere controversie nella divisione e nell’affidamento dei lavori sui quali non erano ammessi imprese esterne, quindi non gradite o non approvate a Luigi Mancuso. La convenienza delle offerte e dei lavori, è affiorato dalle indagini e così secondo l’accusa è stato confermato in sede dibattimentale, doveva così cedere il passo all’appartenenza, quindi all’adesione dei fornitori al gruppo criminale.