Il giallo del corpo affiorato dal mare di San Ferdinando. Ignoto l’esito della comparazione del Dna con quello del giovane pescatore di Terrasini. Dopo un’estenuante attesa, la madre di Francesco Vangeli convocata per ricostruire l’albero genealogico della famiglia: «Nessun rispetto per il nostro dolore»
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I resti di un corpo consumato dal tempo e dal mare custoditi in una cella frigorifera da ben sei mesi. E due famiglie abbandonate nella straziante e insopportabile attesa di sapere se quelle spoglie consunte appartengono ad un figlio sparito e mai tornato a casa. Era il 20 giugno quando dai fondali del mare di San Ferdinando, a poche centinaia di metri dalla foce del Mesima, affiorava quel cadavere scheletrificato.
Competente per le indagini, la Procura di Palmi. Gli accertamenti furono affidati al medico legale Pietro Tarzia, le cui conclusioni, sulle cause della morte, a sei mesi dal ritrovamento, evidentemente coperte dal segreto istruttorio, sono ancora ignote. Come ignota è l’identità di quel giovane uomo, i cui pochi lembi di carne rimasti attaccati alle ossa mostravano tracce di inchiostro, i segni di un tatuaggio.
La scomparsa di Vito Lo Iacono
Sin da subito, Palmi avvalorò la tesi che quei resti potessero appartenere a Vito Lo Iacono, il giovane di Terrasini disperso in mare, a 30 miglia da Palermo, dopo la collisione - il 12 maggio - tra la petroliera Vulcanello e la Nuova Iside, il peschereccio a bordo del quale si trovava assieme al Matteo e al cugino Giuseppe, i cui corpi furono ritrovati nella prima fase delle ricerche. Nessuna traccia, invece, di Vito che - secondo la famiglia - sarebbe rimasto fatalmente ostaggio del relitto. Ma la Procura di Palmi, in collegamento con quella di Palermo, ha ritenuto plausibile che il corpo del ragazzo sia rimasto in mare ed abbia viaggiato, grazie alle correnti, dallo specchio acqueo tra San Vito Lo Capo e Ustica fino al Tirreno calabrese. Peraltro Vito aveva un tatuaggio marinaresco, altro indizio utile ad accreditare questa ipotesi.
D’altronde, solo a settembre, a tre mesi dal ritrovamento di quei resti umani a San Ferdinando, sarebbero stati prelevati i campioni biologici dai familiari di Vito Lo Iacono per procedere ad una comparazione del codice genetico. Un risultato che ancora oggi, trascorsi più di due mesi, non è noto.
Il giallo di Francesco Vangeli
E se non fosse di Vito, quel corpo? Se quello invece fosse il corpo di Francesco Vangeli, il ragazzo di Scaliti di Filandari ucciso il 9 ottobre 2018 e gettato nel Mesima, le cui acque potrebbero quindi averlo condotto, in tutto questo tempo, fino al mare? La Procura di Palmi non ha, nei fatti, mai creduto veramente a questa ipotesi. E mai, quindi, i familiari di Francesco Vangeli sono stati chiamati per l’acquisizione di un campione da cui ricavare il codice genetico necessario per compararlo a quello del giovane uomo i cui resti sono affiorati dal mare. Ma anche Francesco Vangeli aveva dei tatuaggi, tra cui uno di chiara ispirazione marinaresca. E solo dopo una lunghissima attesa Elsa Tavella è stata ricevuta dalla Procura di Palmi.
Un incontro ottenuto solo il 14 ottobre scorso, in pratica cinque mesi dopo il ritrovamento dello scheletro di San Ferdinando. Oggi, a sei mesi esatti, invece, la madre di Francesco viene chiamata dai carabinieri della Stazione di Filandari per ricostruire l’albero genealogico della sua famiglia. «Mi hanno solo detto che è una richiesta che proviene dall’autorità giudiziaria - spiega Mamma Elsa - ma nessuno mi ha specificato di quale Procura si tratti». È forse l’avvio di un’indagine genetica sulla famiglia Vangeli? C’entra con il fascicolo aperto dalla Procura di Palmi sullo scheletro senza nome di San Ferdinando?
Il dolore delle famiglie
Una madre costretta a sperare che quel corpo devastato appartenga a suo figlio, per avere una tomba sulla quale poterlo piangere: basta solo questo per restituire la dimensione del dramma che vive questa donna. «Finché qualcuno non mi dirà, ma con prove certe, che quello non è mio figlio, io continuerò a sperare - dice la madre di Francesco -. Ma io non posso credere, anzi, non riesco proprio a sopportare l’idea, che dopo sei mesi, quel corpo è ancora lì senza un nome. E che la mia famiglia, così come quella di quell’altro povero figlio di Palermo, siano lasciate così, senza che ci dicano nulla, senza una verità, senza neppure una spiegazione».
È un dramma senza fine. È come se un coltello fosse girato e rigirato in una ferita ancora sanguinante. «Domani mio figlio avrebbe compiuto ventotto anni. Doveva vivere. Non doveva morire in quel modo. È il secondo compleanno che non potremo festeggiare. Solo una madre che ha vissuto lo strazio che sto vivendo io può capire, cosa significa avere un figlio ucciso in quel modo e senza neppure una tomba alla quale portare un fiore. Cosa significa sapere che c’è un corpo chiuso in una cella frigorifera da sei mesi, che speri, che senti possa essere tuo figlio, ma nessuno ti dice nulla, senza quasi mostrare rispetto per questo immenso dolore».