Boss, affari, omicidi, e alcuni massoni nei giri d’usura. Nel 2011 i colloqui a Roma con l’allora capitano Giovanni Migliavacca, oggi capo del Ros di Catanzaro. Tre mesi dopo il gangster spirò a soli 43 anni a causa di una devastante patologia neurodegenerativa (ASCOLTA L'AUDIO)
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Antonio Grillo, noto alla storia come Totò Mazzeo, spirò appena tre mesi dopo, il 6 febbraio del 2012, a soli quarantatré anni, devastato da una malattia neurodegenerativa. Fino alla fine, però, dopo aver rispolverato atti risalenti nel tempo che custodivano solo notizie confidenziali rese alle forze dell’ordine, la Procura antimafia di Catanzaro e i carabinieri provarono a convincerlo a formalizzare la sua collaborazione con la giustizia. E l’allora procuratore aggiunto del capoluogo calabrese Giuseppe Borrelli, oggi capo della Procura di Salerno, inviò uno degli ufficiali che avrebbe segnato la storia del contrasto al crimine organizzato nella provincia metafora dell’evoluzione moderna della ‘ndrangheta: Giovanni Migliavacca, allora capitano al vertice del Nucleo investigativo di Vibo Valentia, oggi tenente colonnello al vertice del Ros di Catanzaro, in breve uno degli uomini chiave della colossale operazione Rinascita Scott.
L’ombra di un tempo
L’ufficiale, affiancato da uno dei suoi marescialli più fidati, raggiunse la Capitale, dove Totò Mazzeo dimorava in ragione delle cure a cui doveva sottoporsi. «Appariva in precarie condizioni di salute – è scritto nel verbale riassuntivo di quel “colloquio preliminare di natura info-investigativa” – perché debilitato da una grave malattia di natura muscolare, benché autonomamente deambulante e con qualche difficoltà di eloquio, ma perfettamente lucido e cosciente dal punto di vista mentale e mnemonico, dimostrando una
capacità di ricordare e riferire fatti, anche risalenti in diversi anni addietro, delineando anche alcuni aspetti in modo dettagliato e particolareggiato, a riprova della genuinità dei fatti narrati».
La gang dei picciotti
Totò Mazzeo, a Vibo Valentia, non era affatto uno qualunque. Era uno ‘ndranghetista a tutto tondo, allevato dal defunto boss Carmelo Lo Bianco detto “Sicarro”, che lo accolse in casa sua «come un figlio», quando rimase orfano, svezzandolo alla malavita sin dall’adolescenza. Divenne una sorta di colonnello per i vertici della «società maggiore» che teneva in pugno la città. Era lui a comandare una vasta gang di giovani e giovanissimi, violenti e spregiudicati, ma ossequiosi al suo volere come soldati, che facevano il lavoro sporco per conto dei boss: spaccio di droga, rapine, attentati, intimidazioni a scopo estorsivo… Fu lui, a sua volta, ad allevare come un «fratello maggiore», Bartolomeo Arena, che sarebbe divenuto uno dei collaboratori di giustizia chiave nel procedimento Rinascita Scott. E della sua banda faceva parte anche Andrea Mantella, il più abile nell’uso delle armi, addestrato ad uccidere sin da minorenne, destinato a divenire il sicario più affidabile dei Lo Bianco-Barba, quindi il padrino emergente scissionista, ribelle allo strapotere dei Mancuso, infine –anch’egli – collaboratore di giustizia.
I due colloqui
Nel novembre 2011, Totò Mazzeo, quando aprì la porta di casa all’allora capitano Migliavacca e al maresciallo che l’accompagnava, non era che l’ombra del gangster urbano di un tempo. Forse in preda ai conflitti interiori, ai rimorsi per i crimini compiuti, già diversi anni prima, aveva manifestato propositi di collaborazione, sfumati definitivamente con la comparsa e l’incedere della malattia. Molto tempo dopo, quindi, il futuro comandante del Ros gli offriva una nuova occasione. Partiamo dalla fine: rifiutò. Una scelta dettata, secondo quanto emerge dal verbale, dalla volontà di evitare ritorsioni della malavita nei confronti del figlio, allora adolescente, che dopo una vita di crimini e violenza, sconfitto dalla malattia, era l’unico bene che gli restava. Quel giorno, l’11 novembre, come nel successivo, quando i due uomini dell’Arma mandati dal procuratore Borrelli tornano nella casa, però, parlò. E quelle dichiarazioni oggi sono agli atti del processo per l’omicidio del geologo Filippo Piccione, il cui assassinio rimane ancora oggi una ferita profonda per la città di Vibo Valentia ed al quale lo stesso Totò Mazzeo prese parte, per sua ammissione, col ruolo di basista.
La carriera e le famiglie
Spiegò la sua carriera criminale, dal battesimo secondo il rito del santino bruciato, fino alla dote di Vangelo. Riferì di essere stato a capo di un gruppo di «circa cinquanta picciotti», tutti ligi al suo comando. Ricostruì dettagli sulla storia delle famiglie Lo Bianco, Fiaré, Mancuso, Tripodi, Accorinti (sia quelli di Zungri che quelli di Briatico), La Rosa, Pititto, Prostamo, del clan dei Piscopisani, ma riferì anche vicende inerenti personaggi di spicco della ‘ndrangheta reggina (Alvaro-Palamara, Pelle, Morabito, Molé), cosentina (Pino- Sena) e lametina (Giampà). Spiegò come egli stesso abbia preso parte all’importazione, da Amsterdam, su Roma e Milano, di partite di ecstasy e cocaina. Fornì notizie su casi di lupara bianca e omicidi, tra cui, autoaccusandosi, quello di Filippo Piccione. Il primo giorno, parlò per circa un’ora e mezza: dalle 16.20 alle 18.
Affari e crimini
Il mattino successivo, il ritorno dei carabinieri in casa sua. Indicò dove per anni fu custodito il suo arsenale: in doppi fondi ricavati in alcuni serbatoi del gas, all’interno di un capannone già teatro di plurime riunioni tra noti imprenditori del settore edilizio ed esponenti di spicco del clan Mancuso. Fece riferimento ad un kalashnikov che poco tempo prima fu scoperto e sequestrato dalle forze dell’ordine e sarebbe stato usato per commettere «almeno quattro omicidi». Disse che l’omicidio di Filippo Piccione fu «un errore». Spiegò, ancora, della «pericolosità di Andrea Mantella quale emergente» e dei giri d’usura che avrebbero coinvolto non solo soggetti della criminalità organizzata, ma anche gerarchi della massoneria a quel tempo molto influenti nelle dinamiche sociali e politiche di Vibo Valentia.
E infine: «In ordine alla proposta di collaborazione con la giustizia – è la conclusione del verbale – riferiva che aveva intenzione di riflettere ancora qualche giorno, in relazione ai timori per l’incolumità del proprio figlio sedicenne». Due settimane dopo, la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, prese atto del rifiuto di Totò Mazzeo. Il successivo 6 febbraio 2012 spirò. Era troppo tardi ormai.