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«A causa del silenzio di chi non ha denunciato, abbiamo dato dalla ‘ndrangheta 15 anni di vantaggio». Nelle ore immediatamente successive all’esecuzione dell’operazione “Thalassa”, il procuratore vicario di Reggio Calabria, Gaetano Paci, ha voluto mettere in risalto un aspetto non secondario: l’inchiesta non si basa su dichiarazioni di commercianti vessati. Questi sono rimasti costantemente in silenzio, non si sono mai rivolti alle forze di polizia o alla magistratura per raccontare quanto stava loro accadendo. E così hanno permesso un predominio mafioso sempre più forte. Il procuratore ha anche rivolto un appello alle associazioni di categoria affinché possano farsi interpreti principali di quella che viene sempre più avvertita come ineludibile necessità. E le parole di Paci colgono nel segno per diversi motivi.
Le nuove forme di “pizzo”
Innanzitutto le inchieste degli ultimi anni ci hanno consegnato un tessuto economico che, per la maggior parte, risulta inquinato, quando non completamente infiltrato dalla criminalità organizzata. Continuare a girare attorno al problema, non aiuta a risolverlo. A Reggio Calabria la percentuale di imprenditori ed esercenti che pagano il pizzo, nonostante una tendenza pressoché unanime alla negazione, è altissima. Semplicemente perché oggi il “pizzo” non rappresenta più solo quella classica “mazzetta” da pagare per “mettersi in regola”. Pizzo è di fatto anche essere costretti a rifornirsi di materie prime o prodotti solo ed esclusivamente da imprese mafiose, magari a costi più alti con qualità inferiori. Senza considerare lo specifico settore dell’edilizia, da sempre di pregnante interesse dei clan. Ecco allora che le parole del Procuratore Paci non possono che essere rilanciate e girate – di rimbalzo – a tutti i rappresentanti della associazioni di categoria: da Confindustria a Confcommercio, passando per Ance e Confesercenti. Tutti, nessuno escluso, devono sentirsi chiamati in causa per far in modo che questi 15 anni di ritardo possano essere colmati al più presto.
La risposta di Confindustria
Al momento l’unico a rispondere “presente” è stato il presidente di Confindustria Reggio Calabria che, con un comunicato di queste ore, ha annunciato un’accelerazione nell’istruttoria che porterà allo sportello antiracket: «La prima bozza del protocollo – spiega – coinvolgeva soltanto Confindustria e l'associazione Libera, due attori certamente necessari di questo processo di cambiamento, ma non sufficienti a dar vita allo Sportello. Occorre, a nostro avviso, ampliare la platea degli attori che faranno parte del tavolo, coinvolgendo quelle altre istituzioni, tra cui le forze dell'ordine, che possono fornire un contributo essenziale alla nascita di uno Sportello antiracket efficace, in grado di produrre anche in Calabria i risultati straordinari ottenuti in Sicilia». Il presidente degli industriali reggini, dunque, sembra voler segnare decisamente un nuovo corso rispetto agli ultimi anni tanto da «comprendere la posizione del Procuratore Paci, al quale diciamo che vogliamo rispondere con i fatti, accelerando sull’istituzione dello sportello antiracket per creare i presupposti indispensabili a cambiare il trend e vincere, finalmente, quella cortina di omertà che ha finito per pesare in maniera decisiva sull'espansione del potere criminale nel territorio reggino. La 'ndrangheta ha finito per opprimere l'intero tessuto economico, schiacciando i tanti imprenditori onesti, che fanno parte della rete confindustriale, che operano solo sulle base delle logiche di mercato e nel rispetto delle regole. Se vogliamo davvero ribellarci a tutto questo l'unico strumento è quello di avere il coraggio di denunciare».
«Tutta colpa dei pm…»
Musica per le orecchie della Procura reggina che, però, è ormai assuefatta alla politica degli annunci. Quindi toccherà proprio a Nucera dare corso concretamente a questa interessante e meritoria iniziativa. Del resto, a chi non gioverebbe un’economia pulita, liberata dalla cappa mafiosa? Ne trarrebbero vantaggio tutti: imprenditori, commercianti e consumatori. Ma occorre una volontà ferrea ed un pizzico di coraggio. Mentre, al contrario, si continua ad assistere a teatrini deprimenti di chi afferma che siano addirittura le operazioni di polizia a mettere in ginocchio l’economia cittadina, con la scusa che gli amministratori giudiziari, poi, mandano in frantumi l’integrità delle aziende. In pochi, però, si soffermano a riflettere sul fatto che molte (non tutte) le realtà imprenditoriali sequestrate riescono ad avere prosperità proprio in virtù di quell’appartenenza al circuito mafioso da cui traggono vantaggi considerevoli. Ed è evidente che, una volta arrivato lo Stato, molti rubinetti iniziano a chiudersi, molti lavoratori in nero sono costretti a fuggire via e le condizioni economiche delle aziende ne risentono rispetto a quell’equilibrio falsato di cui godevano in precedenza. Funziona tutto in modo perfetto? Certo che no. Si può e si deve migliorare, studiando forme sempre più efficaci di gestione delle aziende poste sotto sequestro. Magari stilando elenchi di amministratori che abbiano anche delle riconosciute capacità manageriali e che non debbano rivolgersi al magistrato per decidere persino il colore delle forchettine di plastica da comprare per un evento.
Alla prova dei fatti
Quanto alla solitudine degli imprenditori, se fino a qualche anno fa si poteva dire che lo Stato era un po’ deficitario nell’assistenza a coloro che denunciano, oggi la situazione è per fortuna cambiata. Tanto sotto l’aspetto giudiziario (le tutele sono concrete e gli interventi tempestivi), quanto su quello economico (l’accesso a fondi specifici è meno problematico). Nessuna scusa, dunque, per continuare ad alimentare l’industria mafiosa. Confindustria sembra aver colto il messaggio. Non rimane che attendere i fatti concreti.
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Consolato Minniti