«L’avvocato Giorgio De Stefano non avrebbe avuto molto piacere se Villani fosse stato assolto dall’omicidio dei carabinieri. C’erano troppi interessi dietro quel fatto e, secondo noi, quel tipo di condanna poteva stare bene a De Stefano, potendo essere lui portatore di un contro interesse». È sempre il pentito Nino Lo Giudice a monopolizzare l’attenzione del processo “’Ndrangheta stragista” in corso davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria e che vede imputati Rocco Santo Filippone e il boss Giuseppe Graviano, quali mandanti dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e degli altri agguati ai militari dell’Arma.

 

Incalzato dalle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Lo Giudice continua a ripercorrere i fatti principali che lo hanno visto protagonista negli ultimi anni, fra cui anche le confidenze ricevute da Consolato Villani, esecutore materiale del duplice omicidio, e da suo padre Giuseppe, definito da Lo Giudice, come un “riservato” della ‘ndrangheta, un “consigliere” personale.

La possibilità di aggiustare il processo

Le domande dell’accusa si spostano al processo, la cui sentenza è ormai passata in giudicato, sull’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, nei confronti di Consolato Villani e Giuseppe Calabrò. Entrambi sono stati condannati in via definitiva quali esecutori materiali. Lo Giudice racconta di cosa accadde nel momento in cui intervenne la condanna di primo grado: «Villani voleva un altro avvocato su cui poter fare affidamento. Gli dissi che lo avrei portato dal mio, ossia Lorenzo Gatto, che mi difendeva dal 2000. L’avvocato accetta e gli fa firmare la nomina. A quel punto Gatto si sbottona e dice: «Nino non vi preoccupate, se dovesse andare male in Appello, facciamo i motivi per il ricorso in Cassazione e lì vi indicherò chi contattare, ossia l’avvocato Giorgio De Stefano. Lui ha amicizie in Cassazione così vediamo di fare tornare indietro il processo». Lo Giudice contestualizza tale colloquio, riferendosi al periodo nel quale il pentito Spatuzza fece riferimenti agli omicidi dei carabinieri, dicendo che in Calabria ci si era già mossi. «C’era la speranza, secondo Consolato Villani, che lui sarebbe potuto uscire da quella situazione. Poi però gli confermarono la condanna a 30 anni ed uscì di testa, volendo mettere un’auto con bombole di gas di fronte all’abitazione dei suoi parenti a Ravagnese. Io, però, gli consigliai di rimanere calmo».

L’incontro da Gioacchino Campolo

Lo Giudice ricorda di non aver più approfondito la vicenda del possibile aggiustamento del processo. Ma ci fu un episodio che, a suo giudizio, fu emblematico: «Stavamo cercando un locale per l’apertura di un negozio e andammo nello studio di Gioacchino Campolo. Stavamo aspettando, quando dal suo ufficio uscì Giorgio De Stefano. Volle sapere perché fossimo lì e di che cosa avessimo bisogno. Gli dissi che c’era un negozio che ci interessava e che avremmo chiesto a Campolo se avesse potuto darcelo. Lui ci salutò dicendoci di fargli sapere se avessimo avuto bisogno». Qui, però, accade qualcosa di strano: «Campolo – racconta Lo Giudice – non si mise a disposizione ed a noi apparve una cosa negativa il fatto di aver parlato di quello con l’avvocato De Stefano. A nostro giudizio fu proprio lui a dire a Campolo di non mettersi a disposizione con noi». Il ragionamento si sposta, quindi, su quella possibilità di aggiustare il processo. «Ne parlai anche con Giuseppe Villani. Mi sembra fosse nel periodo in cui Consolato battezzò la figlia. Giuseppe mi disse di stare attenti, che De Stefano è un po’ tragediatore e quella scelta poteva rivelarsi un boomerang. Giuseppe Villani predicava prudenza per gli interessi che c’erano dietro il fatto dei carabinieri. Abbiamo pensato che l’avvocato De Stefano non avesse molto piacere di una assoluzione di Villani. Lui poteva essere portatore di un contro interesse e quindi, quella condanna, stargli bene».

Il puparo della cosca De Stefano

L’episodio narrato permette a Lo Giudice di ampliare il suo racconto, delineando con dovizia di particolari la figura dell’avvocato Giorgio De Stefano. Dopo aver ricordato di averlo conosciuto negli anni ’80, grazie ai racconti del padre, il quale gli riferì come De Stefano fosse appartenente alla loggia di Licio Gelli e vicino a personaggi dell’eversione nera e che frequentavano Paolo De Stefano, Lo Giudice dà una definizione molto sintetica: «L’avvocato De Stefano era il burattinaio della cosca. Era quello che realmente comandava nella famiglia, fin dagli anni ’70 e sino ad oggi». Lo Giudice s’interrompe: «Facciamo attenzione quando parliamo di Giuseppe De Stefano. Perché chi comanda e lo manovra è Giorgio. Qualsiasi decisione presa da Giuseppe De Stefano è frutto di Giorgio». Il pentito ricorda un incontro avvenuto con l’avvocato a pochi giorni di distanza dalla scarcerazione di Paolo De Stefano. Siamo nei primi anni ’80. Lo Giudice andò nella villa di Pentimele, dove c’erano molte persone. Lì vide anche Giorgio De Stefano che «ogni tanto si appartava con altri uomini per discutere di non so cosa». Il collaboratore s’interrompe di nuovo nel ragionamento per affermare che «il puparo era l’avvocato anche quando viveva l’altro Giorgio, quello ucciso del 1977». Tale riferimento, così stringente, alla figura dell’avvocato De Stefano, porta il pubblico ministero a chiedere se un simile ragionamento possa applicarsi anche alla scelta di far partecipare Giuseppe De Stefano alla riunione di Oppido, del 1991, nel corso della quale si discusse di stragi di mafia. Lo Giudice non ha esitazioni: «Prima di andare a quella riunione, Giuseppe si consultò con Giorgio. Era lui che decideva la persona che doveva andarci».

 

Quanto, poi, ai rapporti con esponenti di vertice di Cosa nostra, Lo Giudice ricorda di aver appreso in carcere da Pasquale Tegano e Orazio De Stefano, che «l’avvocato aveva delle persone con cui si relazionava all’interno di Cosa nostra. Parliamo di persone a livello di Riina, Provenzano, Messina Denaro e anche Bagarella. Lo appresi mentre eravamo nel carcere di Reggio Calabria. Seppi anche che, durante la guerra di ‘ndrangheta, si pensò di ucciderlo nel suo studio di Roma a causa del fatto che ci fu uno sbilanciamento di potere». La narrazione del pentito porta alla creazione di due sottogruppi interni alla famiglia De Stefano: «Un primo che fa riferimento all’avvocato Giorgio ed a Giuseppe. Un altro che comprende Orazio, spostato con una Benestare, e tutto il resto dei Tegano».

La figura di Rocco Filippone

Ed è proprio con riferimento ai Tegano che Lo Giudice spiega di aver appreso che Rocco Filippone avesse un “San Giovanni” con Giovanni Tegano. «Lo seppi da Consolato e Giuseppe Villani, in quell’occasione mi parlarono anche dei rapporti con i Mancuso ed i Mazzagatti». Le informazioni su Filippone non sono molte: «Mi dissero i Villani che lui era parente con Giuseppe Calabrò. Per quanto ne so le due famiglie erano in buoni rapporti, al punto che ci scambiavano visite». Ed ancora: «Rocco Filippone era un soggetto di grande spessore criminale. Quando veniva da mio padre, lui mi diceva che era uno dei capi della Tirrenica, una persona di rispetto».

Mimmo Lo Giudice, i Libri ed i rapporti con Aiello

L’attenzione del pubblico ministero, tuttavia, si appunta anche su un altro importante argomento: la figura di Demetro Lo Giudice, detto “Mimmo”. La domanda rivolta al pentito è piuttosto larga: «Quante famiglie di ‘ndrangheta che si chiamano Lo Giudice operano su Reggio Calabria?». Il collaboratore ne elenca diverse: «C’eravamo noi, legati ai Condello; c’era la famiglia Lo Giudice di San Giovannello, legata a Mario Audino e quindi ai De Stefano Tegano; poi c’era la famiglia Logiudice di Condera, legati ad Alvaro, Condello e Palermo. La famiglia che opera, invece, vicino al Santuario di S. Antonio è legata a Domenico Libri». È su quest’ultima che si ferma il collaboratore: «Era una costola dei Libri ed il soggetto di rilievo era Demetrio Lo Giudice, detto mimmo. Lui era il punto di riferimento di Domenico Libri per qualsiasi tipo di lavoro». Per confermare la sua dichiarazione, Lo Giudice riporta un episodio e cioè quando egli intendeva aprire un negozio di frutta e Mimmo Lo Giudice gli si avvicinò presentandosi come uomo che Libri aveva messo lì. Ma non solo: anche quando il fratello del pentito, Giovanni, aveva costruito la sua casa a pochi passi dal Santuario, Demetrio Lo Giudice si presentò lì: «Gli fece sempre lo stesso discorso. Il luogo è quello dove mia nipote si è lanciata dal balcone e si trova vicino al Parco Fiamma. L’immobile era già costruito, lui lo stava rifinendo». Dopo qualche riferimento al negozio di frutta aperto per poco tempo a S. Antonio, il pm chiede al pentito se Mimmo Lo Giudice avesse o meno rapporti con Giovanni Aiello “alias” faccia di mostro. La risposta è affermativa. «Aiello lo conosceva. Me ne parlò dopo che entrammo in sintonia, mi fece il suo nome. Mi disse che erano molto amici e che gli passava delle informazioni. Capitò che mi parlasse di lui per due o tre volte. Capii subito a chi faceva riferimento. Mi disse che si conoscevano già da molto tempo, perché la famiglia Libri aveva contatti, tramite lui, con Aiello. Sì, anche i Libri avevano i rapporti con Aiello. Si scambiavano informazioni. Se non ricordo male, mi disse che Demetrio gli chiedeva armi e tritolo».

L’area del Santuario usata per vertici mafiosi

Nel racconto di Lo Giudice, il quale ricorda che anche Villani conosceva bene Mimmo Lo Giudice, c’è anche un particolare. A domanda specifica del pubblico ministero, se l’area di S. Antonio fosse utilizzata per incontri di ‘ndrangheta, il pentito risponde che «Sì, gli incontri avvenivano all’interno del Santuario di S. Antonio. Anche a me è successo. Ma pure in altri luoghi».

Chi è Mimmo Lo Giudice

Il collaboratore rimarca poi come il Mimmo Lo Giudice di cui sta parlando non è quello soprannominato “u boi”. Il Demetrio di cui riferisce «aveva la Santa già ai tempi di Ciccio Canale. Io avevo il Padrino, ma non ricordo se lui avesse un grado superiore al mio». Allora la domanda scatta automatica: se Demetrio Lo Giudice muore libero è perché nessuno parla di lui nel corso degli anni, sebbene sia stato conosciuto come soggetto con ruolo apicale a S. Antonio. Ma perché nessuno ne parla? Lo Giudice è chiaro: «Era un riservato di Domenico Libri e non si sbandierava chi fosse. Lo faceva solo in certe occasioni». E porta un esempio: «Per farle capire – dice il pentito rivolgendosi a Lombardo – questo signore aveva una ditta per condizionatori e prendeva appalti anche nelle caserme dei carabinieri. Lo ebbe anche in quella che c’è sopra piazza De Nava. Era un insospettabile. Pensi addirittura che, in passato, mio fratello Maurizio, collaboratore di giustizia, fu portato alla caserma dei carabinieri. Lì c’era Pasquale Giandoriggio, che lavorava per Mimmo Lo Giudice. Venne da me e mi disse: “C’è tuo fratello Maurizio. Mi ha detto Mimmo Lo Giudice se vuoi che lo ammazziamo lì dentro”. Volevano uccidere mio fratello dentro la caserma dei carabinieri».

I memoriali e la paura

Lo Giudice, infine, affronta l’argomento concernente i tre memoriali da lui redatti. L’ultimo rimase solo abbozzato prima del suo arresto e consegnato solo in un secondo tempo alla Dda. «Mi volevo preparare per quello che stava per avvenire. Volevo parlare con lei e con il dottor Cafiero», dice rivolgendosi al procuratore Lombardo. «C’è stato un momento che non sapevo da chi guardarmi. Non c’era altra via d’uscita. Non mi sono consultato con nessuno prima di scriverli e il primo l’ho indirizzato ai giudici del processo Meta perché volevo far sapere alla ‘ndrangheta che stavo tornando indietro». Il memoriale, dunque, doveva servire per informare i grandi capi, tutti imputati in quel processo, che Lo Giudice avrebbe ritrattato e che anche i segreti riguardanti l’episodio dei carabinieri sarebbero rimasti al sicuro. «Era un memoriale diretto alla ‘ndrangheta, ma anche ai servizi ed a quelle persone che credevo prima o poi potessero uccidermi».