Secondo la Dda di Catanzaro, Alessandro Cerchiara e Piergiorgio Siciliano avevano chiesto un 'contributo' di protezione di 15mila euro, utilizzando metodi intimidatori
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Due condanne definitive per tentata estorsione mafiosa. Si è concluso così il processo a carico di Alessandro Cerchiara e Piergiorgio Siciliano, ritenuti responsabili penalmente di aver chiesto il "pizzo" a una ditta che svolgeva lavori nel cimitero di Cassano Ionio. L'inchiesta era stata coordinata dalla Dda di Catanzaro, in particolare dal pubblico ministero antimafia Alessandro Riello.
Le indagini si erano concentrate su un tentativo di estorsione avvenuto a Cassano Ionio, connesso ai lavori di un cantiere all'interno del cimitero locale. Secondo la Dda di Catanzaro, la cosca operante nel quartiere "Timpone Rosso", riconducibile al clan degli "zingari", aveva chiesto a una ditta di costruzioni un "contributo" di protezione di 15mila euro, utilizzando metodi intimidatori. Le minacce erano state rivolte a un geometra responsabile del cantiere. Le investigazioni hanno portato alla condanna di due imputati, Alessandro Cerchiara e Piergiorgio Siciliano, con una pena di quattro anni, un mese e ventitré giorni di reclusione.
Nel processo di primo grado, il giudice ha ritenuto gli imputati colpevoli di concorso in tentata estorsione aggravata. Tale sentenza è stata confermata dalla Corte d’Appello di Catanzaro, che ha respinto le argomentazioni difensive, tra cui il dubbio sull’attendibilità delle dichiarazioni del testimone e parte offesa e sulla fondatezza delle registrazioni audio e video, che la difesa sosteneva fossero incongruenti o alterate.
In Cassazione, i difensori di Cerchiara e Siciliano hanno sostenuto che il racconto del testimone fosse poco affidabile, adducendo discrepanze nell’identificazione dei sospettati tramite video e audio. In particolare, è stata contestata l’attendibilità dell’identificazione fotografica e vocale e la presunta discrepanza di orari nei filmati delle telecamere di sorveglianza. La difesa aveva inoltre messo in discussione la presenza di elementi sufficienti per attribuire l'aggravante del metodo mafioso.
La Cassazione ha respinto il ricorso (dichiarato inammissibile), ritenendo che le argomentazioni difensive non fossero tali da mettere in discussione l'accuratezza delle precedenti valutazioni di merito. La Suprema Corte ha concluso che i giudici di grado inferiore avevano valutato coerentemente l’insieme delle prove, trovando riscontri adeguati e una logica completa nelle motivazioni. La Corte ha pertanto stabilito che l'interpretazione degli elementi probatori espressa dai giudici di merito era corretta e che non vi erano ragioni per procedere a un riesame della valutazione dei fatti, confermando così le condanne di primo e secondo grado.