VIDEO | Il racconto inedito di Andrea Mantella sulla condanna a morte di ‘U Morizzu. Era parte del commando, poi fece abbassare i kalashnikov per risparmiare la figlia. La resa dei conti nella masseria, ma c’erano due testimoni. Poi l’agguato fatale dell’8 aprile 2008 (ASCOLTA L'AUDIO)
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Faceva parte del commando. La Fiat Panda attesa arrivò e si fermò. Kalashnikov in pugno, si avvicinò e si accorse che accanto alla vittima designata c’era una ragazza che «smanettava col telefono». Andrea Mantella però si ritrasse. Racconta: «Gli dissi “Lasciate stare, jamunindi ca ‘cca ‘nci ammazzamu ’a figghjia”. Io ‘sti così n’e fazzu…». «Io queste cose non le faccio».
Quella sera doveva morire Nino Lopreiato. Fu circondato da uno dei gruppi della morte più feroci della Calabria. Racconta Mantella ai pm di Catanzaro: «Quella sera eravamo io, Onofrio Barbieri, Francesco Scrugli, Fortuna…». Non spararono per evitare di colpire la ragazza. Nino ’u Morizzu, vecchio uomo d’onore di Stefanaconi, restava però un condannato a morte e la ‘ndrangheta le sue sentenze a volte le rinvia ma sempre le esegue. Anche in un’altra circostanza lo avevano risparmiato.
«Ammazziamo questi qua dopo?»
Era stato convocato in una masseria di Sant’Onofrio da Domenico Cugliari, Michi ‘i Mela, pezzo da novanta della mala locale, zio dei fratelli Pasquale, Domenico, Nicola e Salvatore Bonavota. Anche Mantella era presente, assieme al resto del gruppo di fuoco. Potevano ammazzarlo lì, ma anche in quell’occasione rinunciarono: «Sì – racconta il collaboratore di giustizia – perché là dentro c’erano due persone che poi alla fine erano due testimoni». Erano i due pastori proprietari della masseria. Fu uno dei Bonavota a convincere lo zio a non dare l’ordine di sparare. «Dice “Che facciamo, ammazziamo questi qua dopo?”. Gli faceva il nipote allo zio “Stai zitto che…”». Che se avessero ammazzato Lopreiato, quella sera avrebbero dovuto fare fuori anche i due testimoni. Era solo questione di tempo: quell’uomo nel mirino fu crivellato a morte la sera dell’8 aprile 2008, nella sua Fiat Panda, alla periferia di Stefanaconi.
Il processo fallito
Ma perché uccidere ‘u Morizzu? A suo tempo s’ipotizzò che Lopreiato si fosse messo a cercare i responsabili e soprattutto il corpo di Michele Penna, il segretario dell’Udc scomparso da Stefanaconi il 19 ottobre del 2007. S’ipotizzò anche un collegamento con la scomparsa, avvenuta nel dicembre successivo, di un’altra vittima della lupara bianca, Salvatore Foti, a sua volta implicato nella sparizione di Penna. Questo peraltro sarebbe stato, per grandi linee, il contesto che avrebbe portato, il 25 marzo 2014, all’operazione Amarcord, che condusse in carcere quali organizzatori ed esecutori dell’omicidio Lopreiato, Emilio Antonio Bartolotta (già condannato in via definitiva per l’omicidio di Michele Penna) e due sodali, che nei giorni scorsi sono stati assolti dalla Corte d’Assise di Catanzaro per il delitto dell’8 aprile 2008.
Il movente secondo Mantella
La verità, evidentemente, è un’altra. Ed il contributo di Mantella potrebbe aiutare quantomeno a risalire al movente. «Lopreiato Antonino, quello che poi è stato ucciso, gli ha messo un mazzo di fiori a questo dottore, io lo chiamavo dottor Facciolo… La mattina sto facciolo dice “Mi hanno messo un lumino”. Poi Michi ‘i Mela, Domenico Cugliari, è venuto lì, ha fatto il bordello… Dice “Ma come si sono permessi? Chi è stato? Stavolta chi è stato lo dobbiamo ammazzare”». In sostanza, in base al racconto di Mantella, tutto da riscontrare, l’avversione dei Bonavota verso Lopreiato sarebbe da ricondurre ad una intimidazione da quest’ultimo perpetrata nei confronti di Antonio Facciolo, ritenuto un manager di riferimento degli stessi Bonavota e degli Anello nel settore turistico-alberghiero, già indagato nell’inchiesta Imponimento. Intimidazione che la cosca avrebbe recepito come un oltraggio capace di esacerbare i rapporti, di per sé già tesi, con altri gruppi minori del crimine locale. Da qui la condanna a morte. «Lo dovevamo uccidere questo Lopreiato – dice Mantella – ed infatti è stato ucciso».