VIDEO | Da un anno l'uomo di Fuscaldo, paralizzato da dieci, non usufruisce dell'assistenza domiciliare e nella zona del Tirreno cosentino non esiste una sola struttura pubblica che gli consenta di svolgere attività riabilitative o ricreative
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Dieci anni fa è rimasto immobilizzato dal torace in giù, ha attraversato momenti bui fino a desiderare di andarsene, ma poi l'amore per la sua famiglia l'ha salvato e oggi trova persino la forza di denunciare le condizioni dei disabili in Calabria. È la storia di Antonio Leone, tetraplegico di Fuscaldo, che apre il suo cuore alla nostra redazione e racconta il suo dramma. «Ero una persona molto attiva, poi un incidente ha cambiato per sempre la mia vita». E così, costretto a vivere su una sedia a rotelle, ha capito sulla propria pelle quanto sia difficile la vita per i disabili, in particolar modo in Calabria, considerato che molto spesso in questa terra i diritti sono da considerarsi un concetto astratto.
Quel maledetto tuffo in piscina
Il pomeriggio del 2 agosto 2009 Antonio lo ricorda come fosse ieri. E' in compagnia di amici, insieme pranzano, si divertono, hanno voglia di un bagno refrigerante in piscina per alleviare l'opprimente sensazione di caldo tipica delle giornate afose. Anche Antonio vuole fare un bagno e si lancia a tuffo. Forse l'acqua è poca, forse Antonio non fa bene i calcoli, fatto sta che con uno slancio si catapulta sul fondo a gran velocità. Il tonfo è inquietante, Antonio ha battuto la testa. Seguono la disperata corsa in ospedale e la lunga operazione con cui i dottori lo tengono in vita, ma quando riapre gli occhi una parte del suo corpo non risponde più ai comandi. E' in quel momento che realizza di essere rimasto immobilizzato dal torace in giù, a causa di una lesione al midollo spinale. «Per me è stato terribile - racconta l'uomo -, in un primo momento ho pensato di mollare tutto e mettere fine al dramma». D'un colpo, vivere aveva perso il senso. Ma poi l'amore dei suoi cari, di sua moglie e dei suoi due figli, gli fanno cambiare idea e ben presto Antonio trova dentro di sé la forza di lottare: «Non posso andarmene, ho una famiglia - ha pensato -, devo restare qui».
«Noi disabili come fantasmi»
Antonio rimane, dunque, ma andare avanti è tutt'altro che semplice. «Noi disabili ci siamo ma è come se non ci fossimo». Parla di diritti negati, mai riconosciuti, che Antonio però non ha intenzione di elemosinare: «Significherebbe perdere anche la mia dignità». E almeno prova a denunciare. «Vivo da recluso, non ho più l'assistenza domiciliare, che mi era stata garantita fino allo scorso anno, e non posso recarmi in nessuna struttura pubblica che mi consenta di incontrare altre persone, di vivere una vita normale, di svolgere delle attività». Vive 24 ore al giorno chiuso in casa, e come lui tanti altre persone nelle sue stesse condizione, ma nessuno se ne preoccupa.
Il sacrificio della moglie
L'incidente accaduto ad Antonio in realtà ha mietuto un'altra vittima: sua moglie. Da dieci anni, infatti, la donna vive in simbiosi con il marito, lo accudisce, gli fa compagnia, gli prepara da mangiare e lo mette a letto. Nonostante l'ausilio dei dispositivi elettrici, la donna porta una fascia al polso destro, ormai costantemente dolorante per gli sforzi. Ma il fastidio al braccio sembra essere il male minore. La donna, pur essendo perfettamente in salute, vive barricata in casa insieme al marito, senza avere la possibilità di fare una passeggiata all'aria aperta, concedersi una seduta dal parrucchiere o il "lusso" di andare a fare la spesa. Antonio, infatti, è afflitto da altri disturbi che lo costringono a un monitoraggio continuo. «Non volevo che le cose andassero così...», dice l'uomo amareggiato. «Ma non molliamo - precisa subito dopo -, ci diamo forza l'un l'altro perché siamo una famiglia». Così, anche se tutto intorno c'è il deserto, la fiammella dell'amore riesce ancora a tenere salda la loro unione e la voglia di vivere, nonostante il fato avverso e una terra che tratta i disabili come cittadini di serie b.