«Lo Stato non sa cosa soffre un testimone di giustizia, i boss fanno terra bruciata intorno a chi si oppone a loro». Tiberio Bentivoglio, imprenditore di Reggio Calabria, è nel mirino della 'ndrangheta dal 1992. Non è un eufemismo, perché il 9 febbraio 2011 qualcuno gli sparò per ucciderlo. A salvarlo dai colpi del killer fu il marsupio che indossava e che fermò il proiettile a lui diretto. "Da allora - dichiara l'imprenditore - c'è in giro un killer che non ha un nome e non ha un volto né si sa se abita davanti a casa mia».

Ci sono 6 procedimenti penali in atto scaturiti dalle sue denunce, perché l'imprenditore reggino, titolare con la moglie di un negozio di materiale sanitario, ha fatto nomi e cognomi di mandanti ed esecutori. "Ho ricevuto centinaia di lettere di minacce, tante - sostiene - che non bastano due raccoglitori per contenerle".
Nei giorni scorsi l'ultimo avvertimento come documentato dalla nostra testata: qualcuno ha bruciato un deposito in cui custodisce dei mezzi agricoli adibiti alla coltivazione di un frutteto nel rione Ortì di Reggio, dove risiede.

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Ma la vicenda di Bentivoglio è veramente paradossale: il 23 aprile scorso, con una telefonata, gli è stata comunicata la decisione delle autorità preposte di revocargli la scorta. «Ero a centinaia di chilometri da Reggio quando sono stato informato della decisione. Non sapevo - spiega - nemmeno come tornare a casa, se con gli agenti che mi accompagnavano oppure a mie spese, da solo. Non so nemmeno chi abbia firmato il provvedimento né quali siano le ragioni».

Per quindici giorni l'imprenditore si è barricato in casa, senza protezione. Nel frattempo il suo avvocato ha presentato un ricorso al Tar del Lazio. «Il presidente del Tribunale - racconta - ha fatto sapere di avere bisogno di tempo per leggere bene il contenuto del mio ricorso e le ragioni della revoca della protezione, per cui è stata fissata un'udienza a Roma che si terrà in novembre». 

Nel frattempo, in attesa del pronunciamento del Tar, Bentivoglio ha riavuto temporaneamente la scorta. «In questi anni - racconta - ho subito decine di intimidazioni: da una bombola di gas lasciata davanti alla mia proprietà a delle salsicce attaccate alla mia porta solo per citarne due". Messaggi chiari nel linguaggio oscuro della 'ndrangheta. Nei prossimi giorni sarà ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia, come ha reso noto la senatrice reggina Tilde Minasi. Sono stato ascoltato da tutte le maggioranze di governo e intendo parlare anche con quella attuale. Bisogna intervenire - spiega - sul piano legislativo per modificare alcune normative, a partire da quella sulla destinazione dei beni confiscati. Il mio negozio è in un fabbricato confiscato a un boss, ma devo pagare l'affitto perché la legge prevede che solo le onlus e le società no profit possano beneficiare dei beni confiscati senza oneri. È opportuno che questa opportunità sia estesa anche ai testimoni di giustizia e alle vittime di mafia. Nel 1988 - aggiunge - il mio negozio fatturava 2 miliardi di lire, oggi, dopo quanto è successo, battiamo solo qualche scontrino, 4 o 5 al giorno. Questo perché chi si ribella alla 'ndrangheta viene etichettato come un infame e la gente viene indotta a non entrare nel suo negozio. La mia casa è ipotecata dallo Stato. La vendetta delle mafie non ha scadenza, si tramanda di padre in figlio. Giovanni Falcone parlava della mafia indicando due animali: la pantera per la ferocia e l'elefante per la memoria. Chi si ribella - dice con amarezza - deve pagare anche dopo tanti anni. Questo sembra che le istituzioni lo abbiano dimenticato. Non ne faccio una questione politica, non distinguo fra destra e sinistra, anzi ritengono che su questi argomenti destra e sinistra dovrebbero marciare unite».
Intanto, Tiberio Bentivoglio attende di conoscere il suo destino. «Andrò in udienza al Tar del Lazio, mi metterò in viaggio e affronterò altre spese - dichiara - in cerca di giustizia».