«C’è stata una sparatoria, ci sono dei feriti, vai a Filandari». È il 27 dicembre del 2010, redazione di Calabria Ora, Vibo Valentia. Il telefono squilla intorno alle 18. In questi casi, ci si muove in fretta: il tuo mestiere è raccontare meglio che puoi e per farlo devi arrivare prima degli altri. Così chiami il caporedattore, blocchi il giornale, avvisi il fotografo e corri sul posto. Nel volgere di pochi minuti, un’altra telefonata: «C’è un morto». Subito dopo un’altra: «Sono due». La fonte è qualificata. In quei dieci minuti d’auto ne arriva una terza: «Non so dirti esattamente quanti morti sono, ma sono tanti».  

L’uomo in nero e una donna

Arriviamo in una masseria, nella frazione Scaliti. Il freddo, alimentato dal vento delle campagne, è pungente ed incupisce anche il buio. In lontananza il lampeggiante di una gazzella. Comprendiamo di aver trovato il luogo. Si può continuare solo a piedi. Col collega acceleriamo il passo. Scorgiamo venirci incontro un uomo alto e robusto, la cui stazza è resa ancor più imponente da un lungo cappotto in feltro nero: cammina avvolgendo in un abbraccio una donna anziana e minuta. Si fermano sotto un lampione, unica fonte di luce, oltre il lampeggiante dei carabinieri, tra le tenebre opprimenti di quella landa desolata. L’uomo vestito di nero, il prete, l’accarezza e poi si allontana. L’anziana donna quindi resta sola: ha lo sguardo assente, perso nel vuoto della terra che la sostiene mentre tiene le mani incrociate sul petto, nascoste dentro il cappotto.

Il sangue del suo sangue

Ci avviciniamo confusi. Il mio collega le domanda: «Signora, ma che è successo?». Lei rimane per diversi interminabili secondi quasi pietrificata. Poi alza lo sguardo, non versa lacrime. I suoi occhi sembrano inariditi da qualcosa di devastante, impossibile da descrivere. Ci osserva, richiama la nostra attenzione: «Figghji…». Poi tira fuori dal cappotto le mani che nascondeva sul petto. Ce le mostra quasi come fosse in adorazione: «Figghji… M’ammazzaru cincu cavaleri». I suoi palmi sono completamente ricoperti di sangue: quello di suo marito e dei suoi quattro figli. Rimaniamo agghiacciati dall’immagine di quell’anziana a cui era appena stata sterminata la famiglia: aveva accarezzato i cadaveri, sulle sue mani era rimasto il sangue del suo sangue e ce lo mostrava. Provo a chiederle: «Chi è morto? Chi hanno ucciso?». Ma la donna riporta le mani al petto, incrociandole sotto il cappotto. E si chiude nel silenzio.

Emilio Fede e gli altri

Così corriamo verso il lampeggiante, mentre arrivano altri carabinieri. Delimitano l’area con un nastro bianco e rosso e ci impediscono di avvicinarci oltre. Ma vediamo già abbastanza. Vediamo la masseria teatro della mattanza: vediamo un corpo dopo l’altro, esanime a terra. È una carneficina. Ne avevo visti e raccontati a decine di morti ammazzati nei modi più cruenti, ma quella scena, quella donna con le mani insanguinate, quei cadaveri seminati sulla terra, mi lascia senza fiato. Arrivano altri giornalisti, la Procura e il medico legale. Mettiamo insieme gli elementi essenziali della notizia: uccisi a colpi di pistola Domenico Fontana, 61 anni, ed i figli Pasquale, Pietro, Emilio e Giovanni, di 37, 36, 32 e 19 anni. Squilla il telefono: «“È il Tg4… Le passo il direttore…”. “Sono Emilio Fede, so che sei sul posto, tra un minuto ti mando in diretta, se sai cosa è successo lo racconti, altrimenti dimmi tutto ciò che vedi, portami lì…”». Quando Fede lancia il collegamento telefonico, inizio a raccontare e nel mentre mi rendo conto che di quella strage si parlerà ben oltre i confini della Calabria. Il giorno dopo Repubblica dedicherà due pagine: firmeranno Roberto Saviano e Peppe Baldessaro. Il Corriere della Sera manderà Goffredo Buccini a supporto di Carlo Macrì. «Calabria Saudita: ammazzati padre e 4 figli», titolerà Libero. Rai, Mediaset e Sky inseriranno la strage di Scaliti nei titoli d’apertura.

Gli eventi successivi

Sono le 22 quando rientro in redazione: la mente intorpidita e le mani gelate. Sento il direttore e la redazione centrale. Realizziamo uno schema: un pezzo sul fatto di cronaca, uno che racconti i luoghi e lo scenario, un altro sul contesto sociale e i precedenti… Con la testa sono ancora lì e così, quando inizio a scrivere, le parole vengono fuori una dopo l’altra: «Il vento gelido spira sui corpi ancora caldi…». Le vittime, falciate dal fuoco nel tentativo di mettersi al riparo. Il luogo, la notte, l’avvio delle indagini. Di questa storia scriverò anche nei giorni a venire. Racconterò dei funerali all’alba. Racconterò della svolta giudiziaria. I cinque uccisi erano considerati degli attaccabrighe: i presunti assassini - i fratelli Ercole e Saverio Vangeli - avrebbero agito per vendetta dopo aver subito una serie di angherie, ma seguendo un preciso piano di sterminio, coinvolgendo anche uno dei loro figli (Pietro, figlio di Saverio) ed un genero Giuseppe Mazzitelli. Così sentenzierà anche la Cassazione, che condannerà i primi due all’ergastolo e i due giovani a 13 anni e 8 mesi ciascuno. Rimasero, di fatto, due famiglie distrutte. La prima punita con la morte e non secondo legge per i suoi presunti soprusi. La seconda, fino ad allora considerata perbene e quindi estranea a contesti criminali, punita invece secondo il Popolo italiano, per una strage che sarebbe stata premeditata.

Il candore dell’innocenza

Conoscerò, negli anni successivi, la figlia di uno dei condannati al fine pena mai. Una ragazza dolcissima, dal candore ammaliante. Una giovanissima studentessa universitaria, che si lascerà intervistare e mi racconterà con una straordinaria dignità cos’abbia significato per lei essere la figlia di Ercole, un uomo mite, un papà fino ad allora meraviglioso ed esemplare, trasformatosi nel feroce autore di una strage. L’uomo più importante della sua vita, il suo papà, seppellito in un carcere dopo aver consumato un crimine atroce. Pronuncerà parole bellissime, mi racconterà di un amore profondo, razionale e viscerale, capace di resistere davanti alla riconosciuta infamia del delitto compiuto e malgrado la distanza siderale tra il carcere ed il mondo pulito a cui era stata educata e che aveva scelto. Grazie a quella ragazza imparai che la più eclatante crudeltà non deve mai cancellare la dignità degli innocenti.