Riceviamo e pubblichiamo la nota del legale inviata alla nostra redazione in risposta all’editoriale del condirettore del tg di LaC News24, Pietro Comito, dopo la conferenza convocata nella casa della madre del giovane ucciso da un’autobomba a Limbadi
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Riceviamo e pubblichiamo integralmente la replica dell’avvocato Giuseppe De Pace all’editoriale del condirettore del tg di LaC News24, Pietro Comito, diffuso sulle nostre testate dopo la conferenza stampa convocata nella casa della signora Rosaria Scarpulla alla presenza del legale.
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Gentile Dott. Comito,
con tutta la stima per la sua pregiata attività professionale al servizio della corretta informazione giornalistica, mi permetto – riguardo al suo articolo del 16 c.m. – di fare alcune osservazioni, che, nella dialettica e nel confronto – anche aspro, quando è il caso – delle rispettive posizioni, è sicuramente un buon viatico per illuminare meglio la vicenda Vinci, ancora una volta assurta agli onori della cronaca. Ma, vede, fino a quando il sangue innocente non troverà giustizia, è come un fiume carsico o come l’ombra di Banquo: nessuno riuscirà mai a ricacciarlo.
Nel suo articolo premette che «abbiamo… il dovere di essere vicini alle vittime di mafia»: mi pare sia superfluo dire che sottoscrivo (per me parla la mia storia di impegno politico e sociale). Aggiunge che «al contempo abbiamo un altro dovere: salvaguardare il prestigio e l’immagine delle istituzioni…». E qui si entra per davvero nel «campo minato» da lei evocato. Una piccola premessa di ordine teorico. La categoria generalissima del “dovere” astratto e metafisico e valido in ogni tempo stride primariamente con la storia umana, poi con la stessa logica. Se c’è un concetto in sommo grado fluido, dialettico, questo è proprio quello del dovere: non storicizzandolo lo si svilisce a mera declamazione verbale.Faccio degli esempi.
Ai tempi dei servi della gleba, il contadino aveva il dovere di rimanere – lui, la sua famiglia e i suoi eredi – “attaccato” alla zolla (gleba): non poteva andare in città, cambiare lavoro, istruirsi; aveva il dovere di prestazione lavorativa gratuita a favore del suo signore per determinati giorni alla settimana (in Prussia addirittura sei giorni a settimana); alcuni storici riferiscono di uno “jus primae noctis”.Irrazionale,definì quel dovere Hegel. Poi ci furono le rivoluzioni. L’istituzione feudale perse prestigio e si dissolse, e con essa il “dovere” del servo.
Prima domanda retorica. Alla luce del successivo umano sentire e della cultura moderna: qual “dovere” era giusto o sbagliato? Era giusto per quella formazione sociale, sbagliato, per la nostra. Ne conviene?
Ora guardiamolo da un altro lato. Polonia del Sei-Settecento. La costituzione dell’Unione Polacca, prevedeva il principio del dovere della “szlachta” (piccola nobiltà e gentiluomini) di ribellarsi al sovrano (c.d. dovere di confederazione) quando quest’ultimo assumeva decisioni non approvate dal “Sejm” (parlamento dei magnati). Come insegnano i testi storici, l’esercizio di questo dovere portò alla sparizione, dal 1772 al 1796, della Polonia dalla cartina geografica.
Seconda domanda retorica. Non sarebbe stato meglio per la nazione polacca disattendere al “dovere di confederazione” per non finire nelle fauci di Prussia, Russia e Austria?
Un altro lato ancora. Negli anni 30 del novecento i professori italiani avevano il dovere di approvare e sottoscrivere le leggi razziali – solo tre-quattro professori non vi aderirono finendo cacciati dal mondo accademico. Poi, il regime (fascista) che le volle adottare fu spazzato via dal motore internazionale e dalla rivolta popolare: quel “dovere” ne seguì la stessa sorte.
Terza domanda retorica. Avevano ragione quei tre-quattro professori che non ottemperarono al “dovere” di sostenere le leggi razziali, o l’istituzione fascista che le volle introdurre?
In ultimo – ma potremmo continuare fino a riempire tutto il giornale -, la <>: presente nel Codice Zanardelli del 1889 (artt. 192 e 199), abolita dal Codice Rocco del 1930, ripristinata con l’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale n. 288/1944, ancora in vigore (per poco,atteso il <> che avanza).
Quarta domanda retorica. Il “dovere” connesso a questa norma quando era “giusto”: nel 1889, nel 1930, o nel 1944 fino ad oggi?
E veniamo ai fatti, al triste rosario dei fatti in questione – e quando arriveremo all’ultimo grano, vedremo con quale «prestigio e immagine» ne usciranno le Istituzioni.
Settembre 2014. Tribunale di Vibo Valentia (il sottoscritto, all’epoca, neanche conosceva la famiglia Vinci). Causa direttissima, per rissa tra convicini. In gabbia chiusa col lucchetto sono ristretti: un’anziana signora col volto tumefatto, il cuoio capelluto lacerato, gli occhi mostruosamente gonfi (riguardi le foto d’archivio); un anziano signore, vestito alla meno peggio, con evidenti ferite al volto; un giovane rannicchiato in un angolo con lo sguardo smarrito, perso nel vuoto – tutta la famiglia Vinci-Scarpulla. Sulle panche, adagiate comodamente e libere di muoversi, tre persone (una ragazza, una donna matura e un signore sulla sessantina: i Mancuso-Di Grillo) amorevolmente accudite da uno stuolo di carabinieri, i quali, col loro comportamento stucchevole e ossequioso riservato ai loro assistiti, più che l’immagine di militari, restituivano quella di maggiordomi o lacchè: una scena vomitevole (da me ripetutamente denunciata).
Primavera 2017. Incendio doloso (accertato dai Vigili del Fuoco) della taverna di proprietà dei Vinci. Denuncia da parte delle vittime con indicazione messa a verbale degli autori sospettati, i Mancuso Di Grillo. Fascicolo finito nel porto delle nebbie. Poi – per beffa o per rincalzo, o come messaggio a suocera perché nuora intenda – intimazione da parte dell’ASP (quella – unica in Italia – ad essere sciolta per mafia) a Vinci Francesco di rimuovere le macerie. Ma guardi un po’! Dottor Comito, i Vinci, su mio personale ed suggerimento, a quel “dovere” non ottemperarono, e quelle macerie sono ancora lì, a disposizione dell’A.G., se la medesima volesse riaprire il fascicolo.
30 ottobre 2017. Primo pomeriggio. Mancuso Rosaria, Di Grillo Domenico, Barbara Vito, armati di una pistola a tamburo, un pesante randello e un forcone di ferro, aggrediscono il signor Francesco Vinci. Una macelleria messicana. Il malcapitato riporta lesioni cerebrali, lo spappolamento della mandibola, la devastazione delle gengive con perdita di tutti i denti, contusioni in tutto il corpo. Lasciato per morto, riesce a salvarsi solo per essere riuscito, prima di stramazzare al suolo, ad avvertire telefonicamente la moglie che, giunta sul posto, vede fuoriuscire dal cranio della vittima materia cerebrale e dalla bocca grumi neri di materia organica. Il povero Vinci, dopo due giorni di coma, viene riportato in vita dai medici di Catanzaro, ma le conseguenze del massacro se le trascina ancora. In prima battuta, la denuncia della moglie, sentita sommariamente dai carabinieri, indica, per averli visti sul luogo dell’aggressione, gli autori della medesima: Mancuso Rosaria, Di Grillo Domenico e Barbara Vito (loro genero). Queste e le altre circostanze del fatto vengono poi illustrate agli inquirenti, da parte del signor Vinci, alla ripresa delle sue facoltà cognitive. Dal lato dell’attività giudiziaria non succede nulla. Rubricata la denuncia, sistemate le carte, tutto passa in cavalleria. I Mancuso-Barbara-DiGrillo liberi come rondini a primavera, i Vinci a combattere con la malattia, l’angoscia, l’abbandono e le continue minacce della famiglia mafiosa. Le sue tanto amate Istituzioni, dottor Comito, inerti, silenti, corrive.
Poi, il 9 aprile 2108. L’autobomba. La morte sul colpo del povero Matteo, il ferimento di suo padre. L’obitorio. L’Ospedale di Palermo. La terapia intensiva. L’angoscia della signora Rosaria; il suo abbandono nella solitudine più nera. La collaborazione totale alle indagini. La consegna spontanea e incondizionata (su mio suggerimento) del cellulare di Matteo. Il compenso: lo sbeffeggiamento arrogante e protervo di una donna anziana sbattuta in qual tritacarne, da parte dell’Istituzione con quella sua triste uscita sulle «misure tutorie adeguate e congrue… seguiamo gli sviluppi del caso…» che come un mantra ripete in ogni occasione, senza mai dire in che consistono, visto che nessuno le ha mai constatate.
Il 14 giugno, avantieri. Lo “sfratto” ingiurioso della salma dalla cella frigorifera. Il cadavere (la persona!, dottor Bava!la persona. Non il sacco col cadavere!) riposto in un angolo dell’obitorio di Vibo Valentia. Francesco Vinci a combattere, solo, senza alcun familiare vicino, la malattia. La signora Sara a combattere col cane nero della depressione incalzante e disperante, generata dall’abbandono in cui è stata lasciata.
I social (da cui sono scevro per mia scelta deliberata, e sempre memore del monito di Umberto Eco: arena di asini da tastiera) a fare il tifo per la Roma e per la Lazio.
Niente protezione. Niente funerali di Stato. Giusto. Così hanno deciso le Istituzioni. Chi ha orecchie per intendere intenda.
Denunciate. Collaborate. Vinci, Scarpulla, De Pace (sì, siamo un tutt’uno, checché ne dica il leone da passerella liturgica di turno) non demordono. Ma «Verrà il giorno in cui…» (Fra’ Cristoforo, i Promessi Sposi).
Dottor Comito. A lei le conclusioni: le tiri senza pregiudizi e riserve mentali. I fatti hanno la testa dura, sono inequivocabili, incontrovertibili. Le Istituzioni hanno abbandonato i Vinci al loro destino. E chi ha iniziato il lavoro, ne stia certo, lo porterà a compimento. Chi scrive non è caduto dal cielo; conosce le dinamiche mafiose, e amaramente conclude che, forse, chi queste dinamiche è contrattualmente e istituzionalmente preposto a contrastarle, o non le ben conosce, o le conosce troppo bene……
P.S.: ancor prima di avviare la piattaforma di crowdfunding cominciano ad arrivare adesioni. Tuteleremo, anche fisicamente, i Vinci.
Cordialmente.
Avv. Giuseppe De Pace
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