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Chi è stata o ha conosciuto una donna vittima di violenza sa che il recinto più alto non ha catene né sbarre. Sa che il volto del carceriere coincide quasi sempre con i contorni di un viso familiare. Che la mano che accarezza può essere la stessa che soffoca e stringe, e il braccio che nutre lo stesso che affama. La mia generazione, quella degli anni ottanta, ha vissuto il terrore delle scomparse, il confronto spietato con la consapevolezza di poter varcare la porta di casa e non fare mai più ritorno. Avevo tre anni quando esplose il caso Orlandi. L’immagine sorridente della quindicenne con il nastro legato sulla fronte, che divenne, con il passare degli anni, il sigillo del fallimento di un’intera generazione, segnò una linea netta di demarcazione. Ci fu un prima e un dopo. La sparizione di Emanuela Orlandi fu la prima scomparsa mediatica, alla quale seguirono decine di casi. Sancì il brusco risveglio di una società adagiata su un comodo giaciglio di allori, reduce dal boom economico che seguì gli anni bui del dopoguerra. Il 22 giugno del 1983, nel cuore della capitale, un’adolescente cittadina vaticana veniva risucchiata dal nulla. Un mese prima, il 7 maggio, il nulla aveva ingoiato la quindicenne Mirella Gregori. Ore e ore di dirette. Inviati accampati in pianta stabile nel vano tentativo di ricostruire il percorso fatto dalle due ragazze. Oggi, a distanza di 34 anni, l’amara consapevolezza di quei giorni incassa l’ennesima conferma. Si può uscire di casa, salutando svogliatamente, afferrando le chiavi con la convinzione di tornare qualche ora dopo, salire su una macchina con una persona fidata, sparire nel nulla. Non essere mai più ritrovate. Nessuno saprà mai se Mirella ed Emanuela furono ostaggi prima di diventare vittime. Se piansero al buio, da sole, legate alla flebile speranza di una liberazione che non ci fu mai. Perché quando non c’è una verità, tutte le ipotesi sono plausibili. E per chi aspetta un ritorno non c’è tortura peggiore.
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Scomparse e ritrovate
Ma c’è anche chi è tornato dal buio. Chi ha risalito il fondo del pozzo aggrappandosi a una pietra per volta, cadendo mille volte e mille volte rialzandosi. Ricordo lo sguardo trasparente di Natascha Kampusch. La bandana rosa stretta sulla testa, mentre risponde con voce chiara e ferma alle domande dell’intervistatore. Era il 2006. Il doppiaggio non poteva rendere il tono monocorde di quella voce che per tanti anni era stata costretta a tacere. Natascha non era una ragazza come le altre. Sembrava, ma non lo era. Lo si notava, a guardarla bene, da una certa fissità nello sguardo, come chi per tanto tempo ha dovuto controllare e calibrare ogni emozione. Era difficile credere che quella giovane donna apparentemente serena fosse la stessa che per otto anni era stata segregata a pochi metri dalla casa dei genitori. Scomparsa all’età di dieci anni, il 2 marzo del 1998, da una cittadina a una manciata di chilometri da Vienna. La stessa che per 3.096 notti aveva dormito con il polso legato a quello del suo carceriere da una fascetta bianca da elettricista. Più tirava, più il laccio si stringeva segnando la carne. Aveva capito presto che era meglio stare ferma e assecondare la volontà di quel vicino di casa dai tratti familiari che per anni l’aveva osservata dal buio progettandone il rapimento. Quella cittadina nel cuore dell’Austria poteva essere una qualsiasi cittadina di qualsiasi provincia italiana. Tante volte Natasha era uscita di casa insieme al suo carnefice, di giorno era libera di girare per la casa, dalla finestra vedeva i genitori uscire ogni giorno per andare al lavoro, ma mai ha trovato la forza di chiedere aiuto. Soggiogata, pazientemente annientata nel corpo e nello spirito, un giorno dopo l’altro, non aveva mai aveva trovato il coraggio di scappare fino a quel giorno d’estate del 2006. Il rapitore, Wolfgang Priklopil, poche ore dopo la sua fuga, si tolse la vita. Negli anni seguenti, nelle decine di interviste rilasciate a tabloid e giornali, non ebbe mai parole di disprezzo per quell’uomo che l’aveva cresciuta come sposa bambina e concubina. Il progetto ultimo del suo carceriere è compiuto. Le sbarre non ci sono più, ma la prigionia dello spirito non è mai finita. Ogni tanto penso a Natascha, e mi chiedo se sia riuscita a scappare dalla sua mente. Non trovo risposta. Nel frattempo ha scritto un libro. Sulla sua storia è stato fatto un film. Mi piace pensare che chi le ha tolto la libertà non abbia mai raggiunto il suo nucleo più intimo. Quando Natasha è stata liberata aveva 18 anni, io 26. Ho imparato da lei, a migliaia di chilometri dalla mia vita, così lontana e così diversa, che esiste la sostituzione della volontà. Che si può avere la libertà e usarla per rimanere prigionieri della violenza e della sopraffazione. Per ore, giorni, settimane, anni.
Gizzeria Lido, il mostro della porta accanto
Per questo motivo, quando lo scorso 22 novembre, come migliaia di persone, ho visto il video raccapricciante della baracca fatiscente che per dieci anni aveva coperto l’orrore sulle violenze subite da una ventinovenne a Gizzeria Lido non ho provato meraviglia, ma solo compassione. Questa volta non c’era distanza. Tra me e la vittima non c’era lo schermo dei decenni né quello della distanza. I carabinieri di Lamezia hanno aperto uno squarcio sull’orrore della donna, arrivata a 19 anni in Italia dalla Romania, con la speranza di una vita migliore, di un lavoro, segnata, nonostante la giovanissima età, dalla maternità spezzata di un figlio lasciato tra le braccia della madre. Giunta nel nostro paese ha trovato lavoro come badante nella casa del suo futuro carceriere, dal quale ha avuto due figli, una bambina di 3 e un bambino di 9 anni, nati dalle violenze subite dal cinquantaduenne Francesco Giordano Aloisio. Non ha mai visto un dottore. Le ferite, inflitte o incidentali, le sono state suturate con del filo da pesca. Il vero miracolo non è che sia libera, ma che sia ancora viva. Dovrebbe essere uno di quegli episodi di cronaca in grado di segnare un prima e un dopo. Come la storia di Emanuela Orlandi. Invece, dopo il clamore iniziale, il pasto mediatico si è concluso e va consumandosi con questo 2017 ormai agli sgoccioli. La Calabria è tornata a rigirarsi nel dormiveglia cristallizzato nelle le voci dei concittadini dell’aguzzino di Gizzeria Lido. Cortese con i vicini, salutava, si fermava a fare due chiacchiere mentre accompagnava a scuola il figlio maggiore. Nessuno si è mai chiesto chi fosse la madre di quel ragazzino sporco e malvestito. Eppure nei centri piccoli, si sa, tutti sanno tutto di tutti. Ma quando c’è qualcosa da ingombrante da vedere, è facile guardare altrove. Ho deciso che il 2017, per me, sarà un anno marca-tempo. Nel 2018, mi riservo di guardare le altre donne negli occhi con maggiore curiosità. Perché nessuna autorità ha saputo proteggere quella donna rimasta senza nome e senza volto da un pregiudicato che aveva già rischiato di ammazzare un’altra donna qualche anno prima. Che l’aveva fatta abortire con un cucchiaio e un bisturi improvvisato. Nel 2018, mi riservo di prestare più attenzione ai dettagli. Una parola, una confidenza accennata, un sorriso che diventa una smorfia negli occhi di un’altra donna, capace di gettare una lama di luce nel buio impenetrabile della violenza. E chiedo a chi mi conosce di fare lo stesso. Perché può esistere salvezza.