La conferma della partecipazione della ‘ndrangheta al progetto politico e militare delle stragi continentali. L’esistenza in Calabria di un direttorio di sette persone, «sette capocrimine», speculare a quello siciliano e che insieme a quello ha portato avanti  una  strategia di sangue e trattative e ordinato, al pari dei catanesi, di dissimularlo all’esterno e all’interno dell’organizzazione.  E poi il primo riscontro esterno alle accuse che Graviano ha lanciato in aula contro Silvio Berlusconi, alla cui fortuna imprenditoriale il boss di Brancaccio ed altri – al momento misteriosi – finanziatori siciliani avrebbero contribuito.

Il progetto militare e politico delle mafie negli anni delle stragi

Con l’ultimo testimone chiamato in aula al processo “’Ndrangheta stragista”, la pubblica accusa cala la matta. Catanese, «una sfilza di omicidi sulle spalle», l’ex reggente del clan catanese dei Laudani negli anni delle stragi, Giuseppe Di Giacomo, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo conferma non solo il perimetro dell’intero quadro accusatorio, ma anche la struttura più segreta della ‘ndrangheta, fotografata in altri procedimenti e già confermata da sentenze di primo grado.

Parole di un capo

Chiaro, preciso, senza mai un’incertezza, resiliente ai tentativi delle difese di innervosirlo o farlo cadere in errore, Di Giacomo racconta dei suoi anni da capo negli anni delle stragi. Un ruolo a cui era stato preparato «non a caso – spiega – già in precedenza avevo accesso alle riunioni dei massimi vertici» e che è diventato effettivo dopo l’omicidio di Gaetano Laudani. Una famiglia – racconta - «che è sempre stata Cosa Nostra», cresciuta come costola dei Santapaola, ma meno riottosa ad adeguarsi alla linea di ferocia dettata da Santo Mazzei, l’uomo voluto da Bagarella  per “commissariare” Catania e ridimensionare il vecchio boss Nitto, che troppo riottoso era all’idea di avere sangue e stragi sul suo territorio.

Il ruolo dei riservati 

«Era il suo alter ego» dice il pentito. «Lo ha riconosciuto spietato come lui, per questo lo ha scelto, anche se Mazzei non aveva ancora fatto il giuramento» spiega. Ma – è emerso nel corso del dibattimento – questa non era un’anomalia. Nel periodo delle stragi, incarichi e ruoli delicatissimi sono stati affidati – non solo in Sicilia – a personaggi a volte neanche affiliati o dal peso non universalmente noto, ma di stretta fiducia dell’élite dell’organizzazione. Personaggi come Mazzei.

Le riunioni del direttorio siciliano

In quegli anni, Di Giacomo a lui è vicinissimo. È Mazzei la sua principale fonte di conoscenza, insieme ad Aldo Ercolano, di fatto il suo braccio destro Aldo Ercolano. Pur accreditato ai massimi livelli dell’organizzazione, Di Giacomo – spiega – non poteva partecipare alle riunioni del direttorio – il gruppo si creò per gestire le stragi e le trattative che attorno ad esse sono state avviate - che si tenevano nel trapanese, ma anche «ad Enna, Mazara del Vallo, Alcamo, Castelvetrano, Caltanissetta». Lì solo soggetti come Leoluca Bagarella, Totò Riina, Santo Mazzei, Aldo Ercolano, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e Matteo Messina Denaro erano ammessi. Una struttura «più ristretta della Cupola» spiega. Costituita per un progetto preciso.

Sangue per intimorire. E iniziare a discutere

«Nel 1991 vi furono riunioni in cui si decise questo attacco al cuore dello Stato attraverso atti intimidatori, omicidi eclatanti ed eccellenti per creare una tensione, un terrore ed assoggettare tutte le istituzioni». Una strategia militare, ma non solo, di cui pochissimi erano a conoscenza. Di ritorno da quelle riunioni, tanto Mazzei come Ercolano spiegavano. In primo luogo a chi doveva tradurre quella strategia in omicidi e attentati, come quello contro la caserma dei carabinieri di Gravina di Catania «per cui sono stato giustamente condannato» dice Di Giacomo. Attentati di cui spesso bisognava nascondere la vera paternità. «Andavano rivendicati come Falange Armata».

Stragi e trattative, «interesse comune di tutte le mafie»

Ma per ruolo e storia, all’epoca il collaboratore non era uomo a cui si potessero dare ordini senza spiegare il perché. «Erano discorsi riservati, solo alcuni per famiglia ne erano a conoscenza». E lui era fra gli eletti. È così che da Mazzei ha saputo che l’idea era di mettere in ginocchio lo Stato, di costringerlo a piegarsi dopo le condanne del maxiprocesso. «E l’interesse era comune a tutte le mafie» sottolinea. Ma – spiega – c’è stato un errore di valutazione. «Non pensavano che lo Stato avrebbe potuto reagire con gli arresti, il 41bis, la caccia ai latitanti». E hanno alzato il tiro, mentre per altre vie si avviava «la trat..» dice Di Giacomo prima di bloccarsi.

Da "Sicilia Libera" a Forza Italia, la strategia in più fasi delle mafie

Perché  bombe e  morti erano messaggi per avviare - o meglio riprendere - un'interlocuzione con la politica, inceppatasi - racconta Di Giacomo - quando i partiti della Prima Repubblica avevano smesso di dimostrarsi interlocutori affidabili. «Per questo - sottolinea -  c'era stato l'omicidio di Salvo Lima». Lo stesso direttorio che programmava stragi – racconta il pentito – in quegli anni ha messo da parte il progetto di un movimento separatista «che era quello di Sicilia Libera» per sposare la causa della nascente Forza Italia. E al riguardo, a Di Giacomo è arrivata un’indicazione assai precisa. «Ercolano mi fece arrivare l’indicazione di concentrare tutta la nostra attenzione su quel movimento politico. C’erano grosse aspettative sull’ergastolo, ma anche su una serie di investimenti economici». E la cosa sarebbe stata anche oggetto di discussione diretta con Marcello Dell’Utri. «Arrivò l’ordine di fare una serie di attentati alla Standa di Catania, ma era solo un modo di attirare l’attenzione e avviare un’interlocuzione – racconta il pentito – si fa sempre così. L’ordine – aggiunge -  arrivava da Totò Riina per indurre il gruppo commerciale ad attivare contatti con cosa nostra e piegare la Fininvest ai nostri usi».

I calabresi nella Trattativa

Una strategia non solo siciliana. «Quando si decise il progetto delle stragi, subito Riina ne mise a parte i calabresi» spiega Di Giacomo. Del resto tutto il direttorio aveva rapporti storici con l’élite dei clan dell’altra sponda, «Santapaola aveva nominato l’avvocato Armando Veneto, che se non sbaglio all’epoca era anche deputato su indicazione dei calabresi», Riina  aveva già «contribuito alla pace dopo la seconda guerra di ‘ndrangheta» e le famiglie dell'altra sponda «avevano fatto un favore» con l’omicidio del giudice Scopelliti. I principali interlocutori calabresi del direttorio siciliano erano «per Reggio i De Stefano, sulla Piana i Piromalli, ma anche i Mancuso di Limbadi» dice il collaboratore, che non solo lo ha saputo da Santo Mazzei, ma in decenni di carcere ha avuto modo di comprovarlo. «In carcere ho incontrato anche Pino Piromalli “Facciazza”, che negli anni delle stragi era uno dei nostri referenti. Eravamo in gruppi diversi e non ci potevamo parlare, ma ci siamo riconosciuti. Entrambi – racconta – sapevamo chi fosse l’altro».

Il direttorio calabrese

Così come i pochi che erano a conoscenza delle stragi e del «discorso politico» che correva in parallelo sapevano che in Calabria c’era una struttura speculare al direttorio siciliano. «Era il livello supremo delle consorterie di ‘ndrangheta, tutti quelli che ne facevano parte avevano il ruolo di capocrimine» spiega il pentito. «Era fatto da sette persone» dice. Un numero che fa eco a quello riferito da Filippo Chirico, quando, intercettato, racconta della direzione strategica della ‘ndrangheta e  rivela che «Giorgio De Stefano gliel'ha calata la questione. Sei, sette erano in totale. Il coso è di sette». Un “coso” che sembra specchiarsi per rango e numeri nel direttorio di cui parla Di Giacomo. Che racconta anche chi ne faceva parte.

«L'organismo di vertice della 'ndrangheta nel mondo»

«C’erano Franco Coco Trovato, Peppino Piromalli, poi sostituito dal nipote Pino Piromalli Facciazza, Luigi Mancuso, Pasquale Condello, Testuni Pesce, un Bellocco e Peppe De Stefano» succeduto a suo padre Paolo dopo un breve interregno dello zio Orazio. «Un tempo c'era anche Peppe "Tiradritto" Morabito. Era diventato anziano ma aveva sempre un'autorità ed era rispettato». Quello dice «Era l’organismo di vertice della ‘ndrangheta, di tutta la ndrangheta nel mondo» ci tiene a sottolineare il pentito. Quando è arrivata la proposta di partecipare alla strategia degli attentati continentali non si sono tirati indietro. «La ‘ndrangheta aderì a quel tipo di richiesta e per noi il segno furono gli attentati contro i carabinieri. Anche in Sicilia avevamo l’ordine di colpirli».

I calabresi complici alla pari delle stragi come del progetto politico

Come con gli attacchi contro la Standa, un modo per attirare l’attenzione di possibili mediatori di una trattativa già avviata come i processi avviati contro gli ufficiali Mori e De Donno lasciano immaginare? Forse. Su una cosa però Di Giacomo è certo. «Il coinvolgimento della 'ndrangheta non si limitava solo alle stragi, ma erano pienamente inseriti anche nel progetto politico. Non a caso alle prime elezioni a cui si sono presentati, i rappresentanti di Forza Italia sono stati tutti eletti con risultati importanti, non solo in Sicilia».

Graviano lo dice e il fratello conferma

E poi c’era il fronte economico. Anche lì, fra i siciliani e il padre padrone di Forza Italia, Silvio Berlusconi c’erano rapporti consolidati. Lo ha detto Giuseppe Graviano in aula, prima di tornare a trincerarsi dietro il più assoluto silenzio. Nelle quattro udienze in cui ha rotto il muro del silenzio ha raccontando di aver contribuito, da socio occulto insieme, ad altri alle fortune imprenditoriali di Berlusconi e di miliardi serviti per «l’immobiliare, le televisioni, tutto», mai restituiti. Ma in aula lo ha confermato anche Di Giacomo, a cui il fratello di Madre Natura, Filippo, lo ha raccontato in dettaglio.

«Capitali mafiosi all'origine delle fortune di Berlusconi»

Non solo nello stesso carcere, ma anche nello stesso gruppo di socialità a partire dal 2001, Di Giacomo e Filippo Graviano si sono riconosciuti come uguali. «Sapeva perfettamente chi fossi – racconta il pentito - la mia fama mi precedeva, per questo parlavamo spesso. Nel passeggio spesso ci appartavamo, eravamo io e lui a fare avanti e indietro». Filippo Graviano era la mente economica – racconta – Giuseppe, quella criminale. «Lui mi ha detto che avevano degli investimenti, non solo in Sicilia, ma anche nelle zone in cui erano stati latitanti, come la Lombardia. Mi ha detto che a Milano stavano messi bene. Lá avevano a Dell’Utri e Dell’Utri voleva dire Berlusconi». Investimenti – aggiunge Di Giacomo - «che avevano a che fare soprattutto con l’immobiliare». Parole che fanno il paio con quelle di Madre Natura, che aveva raccontato di come dalla Sicilia fossero arrivati miliardi necessari anche per progetti come Milano 2 e Milano 3.

Investimenti paralleli?

Cemento di mafia, come anni fa raccontato anche dal pentito calabrese Roberto Moio, che in pubblica udienza aveva riferito come già dagli anni Ottanta i clan reggini avessero fatto convergere miliardi su Milano, poi usati dai Papalia per “contribuire” alle medesime speculazioni edilizie. «Se i Graviano ancora non sono pentiti - conclude Di Giacomo - è per difendere un patrimonio straripante costruito dal padre e dal nonno, grossi commercianti, che avevano investito a Milano nel settore immobiliare incontrando manager della Fininvest». Gli stessi che in Calabria – ha rivelato un’informativa depositata agli atti del dibattimento nelle ultime settimane – hanno scelto proprio un imprenditore dei Piromalli per costruire il proprio scheletro di antenne e trasmettitori.