Il welfare della mafia funziona più di quello dello Stato. Qualche esempio. Intanto c’è Domenico Bonavota. È il boss, oggi latitante, di Sant’Onofrio: uno sanguinario, uno dalla potenza militare ed economica da fare paura, uno degli antagonisti dei Mancuso. Chi può dire di no a zio Mico ed ai suoi sgherri? Forse nessuno.

Poi c’è la moglie di uno dei fiduciari di Bonavota, uno di quelli che per deferenza al capo s’è fatto la galera e che, tornato libero, se la passava male. Avete presente Gratteri quando dice che «la vera ricchezza è concentrata nelle mani del 2 o 3% dei mafiosi» e che  «i capi hanno soldi come le balle del fieno, il resto sono utili idioti e morti di fame»? Ecco, questo e quel che segue spiega quanto abbia ragione il procuratore di Catanzaro.

Il boss e «don Melo»

Torniamo alla storia e ai suoi protagonisti. La donna invia una serie di sms al capomafia santonofrese, tutti intercettati dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Vibo Valentia: finiranno agli atti delle inchieste Conquista e Rinascita Scott. Spiega che per la sua famiglia sono tempi brutti e dice di avere bisogno di soldi. Il boss provvede. Ma i soldi finiscono presto. E allora serve un lavoro. Magari in un’azienda importante, di quelle che rispettano i contratti e pagano puntuali. Avesse presentato domanda e curriculum al Centro per l’Impiego o a quel colosso, sarebbe davvero morta di fame. E invece si rivolge allo zio Mico e lo zio Mico provvede.

Prima le chiede un curriculum, poi ci ripensa perché quello a lui neppure serve, gli basta il numero di cellulare. Così la rassicura: presto sarà contattata e prenderà un «buonissimo stipendio». E così due giorni dopo viene chiamata dal Centro per l’impiego: l’aspettano in quella grossa azienda, quella di «don Melo» per il colloquio che si sarebbe tradotto in una mera formalità, perché gli indumenti di lavoro per lei ed il contratto sono già pronti.

La parola di zio Mico

La paga è buona, certo. Che ti abbia messo lì la ’ndrangheta o meno, però, i problemi che hai all’inizio sono quelli comuni a tutti i lavoratori: le prime difficoltà con le mansioni da assumere, la diffidenza dei colleghi che magari sanno chi sei e come sei entrata, il tempo per ambientarti.

Su questo devi fare da sola, quanto al resto, ci pensa il boss. Hai bisogno di assentarti dal lavoro, per ferie o questioni familiari? Mica lo dici al datore di lavoro o all’amministrazione… No, lo dici al boss o ai suoi accoliti, poi saranno loro a darne comunicazione. Sei in scadenza di contratto? Col clan non esiste né precariato, né flessibilità.

Magari, il padrone, uno sventurato che ha sempre vissuto nell’onestà e nella rettitudine lo avrebbe pure mandato a casa, ma se su una persona c’è la parola dello zio Mico e degli accoscati il rinnovo del contratto è una formalità. E gli scazzi col dipendente? Essere portati dalla mala è una polizza sul trattamento che ti sarà riservato.

«Mi ha visto… ed è morto»

Insomma, se la sbrigano loro, capomafia e sgherri, tu non devi fare nulla tu. Così, un giorno, parlandone con un’amica, la donna racconta come avrebbe funzionato l’ultima proroga del suo contratto. Dice di aver incontrato «don Melo», il patron dell’azienda in persona: «Lui quando mi ha vista è morto… Che non c’era bisogno che andava mio cognato (altro fiduciario di Bonavota, ndr)… che glielo potevo dire direttamente a lui… prima».

’Ndrangheta e lavoro

Questa metaforica vicenda viene ricostruita nell’informativa finale vergata, il 20 aprile 2020, dal maggiore dell’Arma Valerio Palmieri e acquisita agli atti del procedimento Rinascita Scott. È un documento che nelle sue varie parti spiega - tra ricostruzioni di contesti mafio-associativi, estorsioni, traffici di droga e di armi – spiega quale sia la relazione che esiste tra ’ndrangheta e lavoro. Ad un’impresa importante, non mafiosa alla radice ma assoggettata, impone assunzioni di personale con regolare contratto e stipendio sicuro. Quelle della mafia o in odor di mafia hanno una filosofia diversa. E si ricorre alle forme del lavoro nero o a quelle, per certi aspetti ancora più infime, del “lavoro grigio”. Qualche esempio.

I fantasmi senza diritti

C’è una nota attività ristorativa della provincia di Vibo Valentia, che fa un sacco di soldi grazie ai suoi sontuosi ricevimenti. I gestori di fatto hanno relazioni molto strette con esponenti di primissimo piano della ‘ndrangheta e i carabinieri stanno loro addosso. Nel marzo del 2018 mandano il Nas e Nucleo Ispettorato del lavoro per fare una radiografia al ristorante. Trovano «gravi carenze igienico-sanitarie» e trovano soprattutto «dieci lavoratori in nero». Lavoratori vittime del bisogno di portare il pane a casa, fantasmi senza diritti, sfruttati esentasse. Senza ferie, riposi, indennità di malattia. Da licenziare ad ogni possibile obiezione. Senza indennità di disoccupazione. Gli imprenditori risolvono così, facilmente, il problema del costo del lavoro, della previdenza e del fisco. Stabiliscono in modo capestro gli stipendi. Prendere o lasciare: nel mare magnum della disoccupazione c’è sempre domanda di lavoro e l’offerta la fanno loro.

“Pagare” per lavorare

Il lavoro grigio, per alcuni versi, è anche peggio. È molto più insidioso da riconoscere e punire ma se il padrone viene sgamato rischia l’arresto e il carcere. Il contratto al dipendente è regolare, anche se quasi sempre a termine. Ma i contributi, in pratica, il dipendente se li paga da sé, perché è costretto, una volta incassato lo stipendio previsto dal contratto, a restituirne una parte, talvolta addirittura la metà. Si chiama estorsione. Difficile, quasi impossibile, che qualcuno denunci: se parli di imprenditori malandrini significa esporsi a pesanti ritorsioni e, poi, l’ambiente è piccolo, chi assumerebbe mai uno che in passato ha fatto arrestare il suo datore di lavoro? È un welfare bastardo ma efficiente: abbatte la tassazione, sgrava la previdenza, riduce il numero delle controversie giudiziarie. Il padrone beffa lo Stato taccagno, quindi si arricchisce e ti sfrutta mentre ti persuade di essere un benefattore perché ti ha assunto con un contratto in regola.

Figli della mafia o di un dio minore

Il “lavoro grigio” è una pratica estremamente diffusa e, come detto, difficile da colpire, che investe i più svariati settori dell’economia calabrese. Dall’agroalimentare all’edilizia, dalla ricettività alla grande distribuzione, dal commercio alla ristorazione. Quello che scoprono, grazie all’indagine Rinascita, i carabinieri del Nucleo investigativo di Vibo Valentia in un grande discount, per esempio, è davvero allucinante. All’interno si trovavano due categorie di dipendenti: quelli assunti grazie alla malavita avevano stipendi più corposi, potevano assentarsi dal lavoro quando volevano e svolgevano le mansioni a loro più gradite. Gli altri, quelli non imposti dalla mala, erano sfruttati. I part-time, ad esempio, avevano una busta paga da 700 euro mensili. Sulla carta, solo sulla carta: perché di fatto, a fine mese, ne prendevano sole 500.

Una questione di «credibilità»

Un sistema, anche questo, cristallizzato in una delle inchieste antimafia più imponenti di tutti i tempi. Un sistema che per essere scardinato necessita di uno Stato «credibile». Magistratura e forze dell’ordine hanno dimostrato di esserlo, il resto dello Stato, gli altri apparati istituzionali, ma anche la politica, le categorie produttive, le associazioni devono fare molto, molto di più. Ciò che forse, nel profondo Sud, mai è stato fatto, inquinando il mercato, penalizzato gli imprenditori onesti che pagano le tasse, rispettano le regole e non si piegano al ricatto mafioso, sfruttando, soprattutto, l’infinito bisogno di lavoro di decine di migliaia di donne e uomini, giovani e soprattutto meno giovani.