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Sguardo basso, volto corrucciato, umore nero e nessuna voglia di parlare. Non è una grande giornata per Giuseppe Scopelliti. Lui, che per mesi ha immaginato una possibile assoluzione e la fine degli incubi che lo perseguitano da oltre due anni, ora deve fare i conti con una realtà che parla di un’altra tremenda mazzata.
Il “caso Fallara” può davvero tramutarsi in una disfatta, non più soltanto politica, ma anche giudiziaria. Perché la decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria, di condannare l’ex governatore a cinque anni di reclusione, pone un secondo pesantissimo tassello nel suo percorso processuale e di vita.
"Caso Fallara", Scopelliti condannato a cinque anni
Giuseppe Scopelliti rischia ora davvero di dover varcare la soglia del carcere, se anche la Cassazione dovesse ritenere legittimo l’operato dei giudici. E a poco vale lo sconto di un anno di pena, considerato che, sostanzialmente, per il sindaco del “Modello Reggio” poco o nulla cambia: è stato comunque condannato per entrambi i reati contestati (abuso d’ufficio e falso ideologico) e non ha ottenuto neppure la revoca dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dunque, rebus sic stantibus, la carriera politica di “Peppe dj” termina in un’assolata mattina di dicembre, a pochi giorni da Natale.
E pensare che Scopelliti, si presenta di buon’ora a piazza Castello. Durante il processo d’Appello, poche volte lo si è visto comparire in aula. Oggi, però, è la giornata che può segnare un radicale cambiamento. Lo sguardo è teso – inutile negarlo – ma la presenza di un nutrito gruppo di fedelissimi, contribuisce a farlo sentire più sicuro.
La Corte si ritira in camera di consiglio intorno alle 10. Scopelliti lascia il palazzo di giustizia e si ferma pochi metri più in là. Compaiono alla spicciolata i tanti protagonisti del “Modello Reggio”, accorsi al capezzale del capo in una giornata fondamentale. Si rivede l’ex assessore regionale Demetrio Arena, già sindaco di Reggio nell’anno dello scioglimento per mafia. C’è un altro esponente di peso del centrodestra, oggi scomparso dagli schermi, come Michele Marcianò. E non mancano neppure personaggi da sempre assai vicini a Scopelliti, come l’avvocato Oreste Romeo. Poi, a qualche minuto dalla lettura del dispositivo, ecco altri ex assessori come Enzo Sidari e Giuseppe Agliano, ma anche Giuseppe Martorano e – per qualche minuto – anche Monica Falcomatà. Scopelliti, sebbene abbia il volto tirato dalla lunga attesa, decide ad un certo punto di lasciare l’angolo di piazza Castello per andare a trovare posto fra i banchi dell’aula della seconda sezione della Corte d’Appello. Resta lì, seduto per lungo tempo, in attesa dell’uscita dei giudici.
Sono le 14.19 quando il presidente del collegio, Adriana Costabile, fa suonare la campanella che sentenzia la fine dell’attesa. Scopelliti guarda nervosamente verso il basso, incrocia le mani, quasi in segno di preghiera, e si guarda attorno. Inizia la lettura del dispositivo e il presidente esordisce con una formula precisa: «In parziale riforma della sentenza…». Scopelliti ha un sussulto, alza gli occhi al cielo sperando probabilmente che quelle cinque parole possano cambiare il corso degli eventi. Ma è solo un’effimera illusione. La Corte decide di limare la condanna, passando da sei a cinque anni di prigione.
Impietrito. Senza parole. Scopelliti continua ad ascoltare immobile il resto del dispositivo. Forse spera che almeno alla fine si possa scorgere qualcosa di buono in una giornata che sembrava promettere qualcosa di più di un anno di riduzione di condanna. Invece nulla.
E se i revisori dei conti mettono in cascina una sostanziale rimodulazione della pena che consente loro di non avere più un’interdizione dai pubblici uffici, Scopelliti sente che per lui le cose si mettono davvero male.
Attende diversi minuti all’interno dei corridoi dell’antico palazzo di giustizia, prima di varcarne la soglia. È sempre assieme al suo avvocato Aldo Labate, che non lo lascia un minuto da solo. Si vede lontano un miglio la delusione del legale che tanto aveva puntato sul grado d’appello.
Sono da poco trascorse le 14.30, quando l’ex governatore lascia la Corte. Esce con lo sguardo rivolto verso il basso. Nota quattro o cinque telecamere pronte a raccogliere una sua dichiarazione. Ma lui – di solito assai loquace – fa un cenno veloce con la mano in segno di diniego. Di parlare non ha alcuna voglia. L’unica frase la concede a suo fratello, che lo guarda da lontano: «Ciao, Tino». È un saluto che trasuda amarezza.
La scorta lo fa salire sull’auto blu. È tempo di andare, di allontanarsi da quel luogo che ha tramutato la speranza in sconforto. Sono lontani gli anni delle folle osannanti. Oggi restano solo pochi amici intimi che si sparpagliano fra sguardi perplessi e disincanto. Così, mentre la berlina grigia scappa via velocemente, sotto l’albero di Peppe Scopelliti rimane il peggior regalo possibile dei suoi primi 50 anni.
Consolato Minniti