‘Ndrangheta stragista, il maresciallo Tempesta: «Bellini mi diede un biglietto con cinque nomi. Lo portai a Mori, lui mi disse: “È il gotha mafioso, proposta irricevibile”». Cosa accadde dopo?
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Cosa nostra tentò di intavolare una trattativa con lo Stato subito dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, nell’estate del 1992. È quanto emerge dal processo “’Ndrangheta stragista” in corso a Reggio Calabria, dove ha deposto il sottufficiale dell’Arma Roberto Tempesta, militare che catturò la fiducia dell’ex componente di Avanguardia nazionale, Paolo Bellini.
Tempesta fu il militare al quale Bellini si rivolse una volta deciso di infiltrarsi all’interno di Cosa nostra, come lo stesso ex estremista di destra ha riferito ai magistrati nel corso della precedente udienza.
Dal colonnello Mori a Bellini
Tempesta, rispondendo alle domande dell’avvocato Antonio Ingroia, ha spiegato nel dettaglio come sia avvenuta la conoscenza con il generale Mario Mori, l’ex ufficiale dell’Arma condannato in primo grado per la trattativa Stato-mafia. I rapporti con l’allora colonnello risalgono addirittura al 1978, nel periodo successivo al sequestro di Aldo Moro. «Prestai servizio con lui per un mese», rimarca Tempesta alla Corte d’Assise. Poi le loro strade si divisero per lungo tempo.
La conoscenza con Bellini, invece, avviene nel mese di aprile o maggio del 1992. «Lo conobbi casualmente a San Benedetto del Tronto, dove mi stavo recando casualmente mentre facevo indagini per furti di opere d’arte in Abruzzo, Marche, Emilia dove si sapeva ci fosse una banda che si scambiava la refurtiva. Noi eravamo stati allertati per la rapina ai danni della pinacoteca di Modena che, eravamo convinti, fosse stata commessa da Felice Maniero, capo della Mala del Brenta».
L’incontro con Bellini avvenne casualmente all’interno di un antiquario locale e, sapendo io chi fosse, gli chiesi se avesse delle notizie utili o contatti per arrivare a Felice Maniero». Tempesta non fa mistero di come sapesse, sin dall’epoca, la verità su Bellini e sulla sua falsa identità quale Roberto Da Silva.
L’incontro e la proposta
I due decidono quindi di aggiornarsi ad un momento successivo fino a quando non viene fissato un appuntamento alla stazione di servizio Tevere, che sta fra il casello di Roma Nord ed il Gra. Siamo già oltre l’attentato di via D’Amelio. «Bellini arrivò e parlò di una situazione completamente diversa. Non aveva mai fatto riferimento prima a determinate conoscenze. Disse che con i siciliani aveva buoni rapporti ed aveva millantato che poteva ottenere, a fronte dell’interessamento per risolvere il caso degli oggetti d’antiquariato spariti, da personaggi politici benefici per qualcuno».
È in questo momento che Bellini di autopropone per potersi infiltrare in Cosa nostra. «L’obiettivo era ottenere il plauso della gente che stava sopra i siciliani che lui conosceva, così da sapere in anticipo di eventuali altri attacchi futuri e prevenirli».
Il biglietto con i cinque nomi
Ma cosa chiedevano in campo i siciliani per fornire notizie sui quadri rubati? «C’era un biglietto verde, evidentemente scritto da altri – spiega Tempesta – in cui vi erano i nomi delle persone che avrebbero dovuto ottenere il ricovero in ospedale». I nomi sono quelli già indicati da Bellini nel corso della precedente udienza e si tratta dei capi di Cosa nostra allora in manette, fra cui Bernardo Brusca, Pippo Calò e Luciano Leggio. «Per me quella richiesta non era ricevibile – rimarca l’ex maresciallo – ma gli dissi che lo avrei messo in contatto con il Ros. E in quell’occasione stabilimmo una parola d’ordine: aquila selvaggia».
L’incontro con Mori
Tempesta ricorda di aver incontrato l’allora colonnello Mori nella seconda metà di agosto del 1992 a Ponte Salario. «Gli riferisco i fatti e gli do il biglietto con i nomi. Mi disse: “Ma qui stiamo parlando del gotha di Cosa nostra, è una richiesta irricevibile. Comunque vedrò di mandarci qualcuno a parlare. Ultimo o qualcun altro”. Io però non seppi più nulla. Incontrai Bellini intorno alla fine di settembre e mi disse che non era stato contattato da nessuno. Mi chiese di insistere poiché lo stavano pressando, io lo invitai a desistere e non tornare giù in Sicilia. Nel contempo gli promisi che avrei ricontattato Mori. Ci fu una telefonata fra me e il colonnello in cui Mori mi disse “ok, ora lo facciamo”, con riferimento al fatto di sentire Bellini. Poi non seppi più nulla circa l’interlocuzione del Ros con Bellini. Seppi solo dopo che, credo dopo la strage dei Georgofili, o addirittura all’inizio del 1994, ci fu l’intervento del dottor Vigna».
È a questo punto che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, chiede a Tempesta se possa escludere che l’iniziale chiusura del generale Mori si poté trasformare in una successiva apertura. «Non sono a conoscenza di ciò che è successo», conferma Tempesta. Che aggiunge: «Io avrei approfondito quella proposta, se fossi stato in Mori. Perché secondo me c’erano altri motivi. A mio avviso era un biglietto da visita che Bellini portava per potersi infiltrare e sapere qualcosa di più».
Dalle parole di Tempesta, dunque, viene fuori come Cosa nostra avesse, già dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, l’intenzione di intavolare una trattativa con lo Stato per far ottenere benefici a coloro che stavano in cella. Del resto, le date in cui tutto ciò avveniva collimano perfettamente con la fine del maxi processo e le condanne dei grandi boss. Stando a quanto statuito dalla sentenza di primo grado, i Ros tentarono di aprire un dialogo con Massimo Ciancimino, utilizzando il padre Vito come interlocutore. In attesa della chiusura con l’avvento di Dell’Utri.
Ma ora, Tempesta e Bellini inseriscono un tassello ulteriore: ci fu un primo tentativo, ancor prima delle stragi continentali, di aprire il tavolo della trattativa. Il cardine avrebbe dovuto essere Bellini e, tramite Tempesta, giungere al colonnello Mori e, quindi, allo Stato. Morì, tuttavia, all’epoca si rifiutò. Dopo accadde qualcosa che fece cambiare idea al generale dell’Arma?