Le durissime motivazioni con cui la Suprema Corte annulla senza rinvio l'ordinanza nei confronti dell'ex capogruppo Pd in Consiglio regionale e del maresciallo della Guardia di Finanza: intercettazioni inutilizzabili e accusa «priva di aggancio concreto»
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«È palese la assoluta inconsistenza delle ipotesi d’accusa» che appare «del tutto congetturale, senza alcuna corrispondenza con i pochi dati fattuali». Sono parole che pesano come macigni quelle che la Corte di Cassazione utilizza per demolire le accuse nei confronti dell’ex capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Sebi Romeo e del maresciallo Francesco Romeo. Le sette pagine vergate dal collegio presieduto da Andrea Tronci consegnano una indagine che viene minata alle fondamenta, fra una declaratoria di inutilizzabilità delle intercettazioni e una valutazione di assoluta mancanza di gravità indiziaria.
La vicenda e l’inchiesta Libro nero
L’ex consigliere regionale Sebi Romeo, difeso dagli avvocati Natale Polimeni e Armando Veneto, infatti, è accusato, in concorso con Francesco Romeo, maresciallo della Guardia di Finanza in servizio alla Procura generale di Reggio Calabria difeso dall’avvocato Loris Nisi, di un episodio di tentata corruzione. Entrambi sono finiti dapprima agli arresti domiciliati nell’inchiesta “Libro nero”, per poi essere scarcerati dalla Cassazione, con una posizione previamente stralciata dalla stessa Dda.
Secondo la ricostruzione dei magistrati, il sottufficiale della Finanza avrebbe chiesto all’ex capogruppo del Pd, in Consiglio regionale, l’interessamento per l’assunzione di un suo conoscente in una impresa di trasporti, offrendo in cambio la disponibilità a fornire notizie su procedimenti penali prendenti alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Mediatore di ciò sarebbe stato Concetto Laganà. L’accusa ha ritenuto rilevante un colloquio, intercettato il 24 giugno del 2015, all’interno del palazzo della Regione Calabria, nell’ufficio di Sebi Romeo, fra questi e Concetto Laganà, segretario del Partito democratico di Melito Porto Salvo.
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La registrazione avvenne tramite “captatore informatico” installato sullo smartphone del politico. Laganà raccontò di aver rivisto il suo compagno di classe “Franco”, identificato poi per Francesco Romeo, durante una riunione conviviale. Questi gli manifestò il desiderio di avere un contatto con l’assessore regionale Nino De Gaetano, parlando della disponibilità a ricambiare il favore, con una frase chiara: «Se loro hanno bisogno della Procura, io ho aiutato tanti senza che mi fanno favori». Laganà suggerì di contattare Sebi Romeo che si disse pronto ad incontrare il finanziere. Laganà specificò come Francesco Romeo aspirasse all’assunzione di un suo conoscente in una ditta di autolinee. I due si misero d’accordo per un appuntamento di persona, ma la mancanza di intercettazioni ulteriori, per problemi tecnici, non consentì di dimostrare l’effettivo incontro nella data indicata. Nella ricostruzione dei giudici della Cassazione, viene rimarcato come il Tribunale del Riesame (che ha confermato la misura per entrambi gli indagati) ritenne rilevanti anche alcune successive operazioni di ascolto dalle quali risultò che Laganà organizzò una cena il 17 luglio 2015, a cui partecipò anche Sebi Romeo. Laganà chiese al figlio di contattare “Franco” invitandolo per un caffè, proprio nei tempi in cui Sebi Romeo avvisò Laganà che l’avrebbe raggiunto nella sua abitazione. Ulteriore elemento valorizzato dal Tribunale del Riesame è l’interrogatorio di Francesco Romeo, che, però, negò tutti gli addebiti, pur confermando l’incontro con Sebi Romeo, dove si parlò genericamente di una possibilità di assunzione, escludendo qualsiasi condotta specifica. Incontro non rammentato dal politico.
Le ragioni del Riesame
I giudici del Tribunale del Riesame scrissero che «l’illiceità dell’intesa è conclamata dalle estreme cautele adottate dai protagonisti, del tutto inspiegabili nell’ambito di un mero approccio clientelare dell’elettore al politico». La conferma dell’incontro nell’abitazione di Laganà poi «non può che inserirsi nel programma sinallagmatico che vedeva il militare impegnarsi ad assecondare eventuali richieste del politico in relazione ad incombenze inerenti alle mansioni svolte nella locale Procura della Repubblica». Il patto, dunque, si sarebbe perfezionato, anche perché, secondo il Riesame, qualche giorno dopo il suo ingresso sullo scenario investigativo, il captatore informatico installato nell’apparecchio telefonico di Sebi Romeo smise di funzionare, collegando la circostanza («verosimilmente tutt’altro che casuale») al fatto che, nel corso della perquisizione effettuata nel 2019, all’interno dell’ufficio del finanziere questi avesse la disponibilità di articoli estratti da internet sul tema del captatore informatico.
Le intercettazioni inutilizzabili
La Corte, tuttavia, non condivide le ragioni del Riesame, accogliendo a pieno i motivi della difesa, innanzitutto con riferimento alla inutilizzabilità delle intercettazioni ottenute con captatore informatico. È l’aspetto più tecnico di tutta la vicenda. «L’affermazione secondo la quale il “procedimento” di cui all’articolo 270 cpp va riferito all’identità di “fascicolo” è di per sé erronea, perché la norma citata fa riferimento ad un concetto sostanziale di procedimento; d’altra parte – prosegue la Corte – lo stesso Tribunale riconosce l’assenza di connessione, anche solo probatori, con i fatti per i quali le stesse furono utilizzate». Ricordiamo che i due Romeo furono coinvolti dapprima nell’inchiesta “Libro nero”, operata contro la cosca Libri. Salvo poi, in un secondo momento, vedere stralciate le loro posizioni. La Corte, dunque, rifacendosi anche ad un precedente assai recente delle Sezioni Unite, ha ritenuto inutilizzabili le intercettazioni. Da qui ne sarebbe derivato un annullamento con rinvio, scrivono i giudici, perché sarebbe stata necessaria una «prova di resistenza» del giudice di merito, «quanto alla possibilità di dimostrare l’ipotesi accusatoria sulla scorta di elementi ulteriori».
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«Ipotesi d’accusa inconsistenti»
Ma è subito dopo che arriva la vera stangata per l’accusa: quanto «agli altri motivi riferiti alla sussistenza di indizi del reato contestato», scrive la Corte, «è palese l’assoluta inconsistenza delle ipotesi di accusa, non solo per la scarsa portata degli elementi ulteriori, rappresentanti soltanto dalle dichiarazioni rese da Francesco Romeo in un proprio interrogatorio, ma anche per la irrilevanza degli stessi elementi desunti dalle prove inutilizzabili e che, però, ben si possono considerare in favore dei ricorrenti». Insomma, dicono i giudici, quand’anche fossero stati utilizzabili gli elementi desunti dalle intercettazioni (e non lo sono), essi sarebbero comunque in favore dei due Romeo.
Così, i giudici si spingono addirittura oltre i motivi addotti dalle difese anche quanto alla qualificazione giuridica del fatto quale tentativo che «sembra derivare maggiormente dalla genericità della tesi di accusa e dalla incertezza sul fatto, risolta con l’apparente scorciatoia del reato tentato». Dalla generica descrizione dei fatti «risulta tuttalpiù una mera intenzione di commettere il reato o una desistenza volontaria». Non viene chiarito perché si parli di tentativo. «Considerare le norme in tema di reato di corruzione, a fronte dell’unico dato comprovato, ovvero l’incontro tra i due soggetti, una volta che lo stesso Tribunale esclude la perfezione del reato (con la promessa o l’istigazione), non si poteva affermare con certezza altro che l’esservi stata o una generica proposta che non aveva avuto seguito o l’impossibilità di una utile prestazione da parte di uno dei Romeo». I giudici ravvisano un’altra contraddizione palese quando «il Tribunale afferma, o lascia intuire, l’ipotesi che Sebi Romeo sarebbe stato avvertito dal p. u. delle intercettazioni in corso: a fronte di una simile ipotesi, si dovrebbe discutere di una corruzione consumata». In realtà, scrivono i giudici, «dalla lettura dei fatti accertati dal Tribunale, in base ad intercettazioni inutilizzabili di cui però è legittimo fare uso “a favore”, si comprendere che non vi è alcuna evidenza di una effettiva “offerta”».
Il Riesame, rimarca la Cassazione, parla di una «generica offerta di disponibilità» da parte del finanziere nei confronti del politico, ma «nulla si dice di concreto». Né si comprende cosa il pubblico ufficiale, in servizio in Procura generale, avrebbe “offerto in vendita”, «considerato che non era ruolo che lo mettesse in grado di conoscere intercettazioni riservate, se del caso gestite dalla Procura presso il Tribunale».
Quanto poi al fatto che si sia collegata la cessazione di funzionamento del trojan nel telefono di Sebi Romeo con la presenza, a distanza di 4 anni nell’ufficio del maresciallo, di un articolo scientifico sulla inutilizzabilità del dato tipo di intercettazione appare «indice della ricerca di elementi giustificativi di una tesi di accusa priva di qualsiasi aggancio concreto». La stroncatura finale è senza appello: «L’accusa è del tutto congetturale, senza alcuna corrispondenza con i pochi dati fattuali e risultando esaminato tutto il materiale probatorio disponibile (di cui ampia parte inutilizzabile), non vi è alcuna prospettiva di una diversa decisione in sede di rinvio». La conseguenza è l’annullamento senza rinvio tanto dell’ordinanza del Riesame, quanto di quella emessa dal gip. Una vera e propria pietra tombale sull’inchiesta costata gli arresti domiciliari ad un consigliere regionale e ad un sottufficiale della Guardia di Finanza.